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Riepilogando

m quadretto acquarellosoMichela va a prendere l’armadio mercoledì alle 14.  Dentro all’armadio ci sono il vassoione d’argento e una borsa di scarpe della mamma e una altra di vestiti.

Ho scoperto i due giacimenti ulteriori di cose della mamma, sotto il letto blu (che non ho avuto il coraggio di tirare giù ed è ancora col materasso su)  e negli armadi della Clara, poi li porterà lei con il Mimmo.

Sul letto di metallo in camera mamma c’è tutta la biancheria di casa: lenzuola, salviette, tovaglierie, coperte di lana, sono grosso modo impilate per… argomento.

Ci sono il battipanni, un bastone e le cose dello stiro.

Nella cassapanca oltre a sacchetti ci sono un sacco di cose di elettricità, il Beghelli etc.

In camera Clara ho trafficato al buio, vuoto armadio e cassettiera, c’è il tappeto che forse è un peccato lasciare se non lo prendi, io con gli animali non lo uso.

Ecco, le cose piccole sarebbero portabili all’usato (sgabelli, lampade) le cose grosse no  perchè non saprei dove tenerle nel frattempo (potrei andare il 22 marzo, forse, a me piace quello di Intra, lavora bene)

Bagni vuoti entrambi come mobilietti, cioè lasciati solo detersivi e carta igienica, tolti farmaci profumi vuoti  etc ci sono sui lavandini saponi e cose per la barba e disinfettanti.

salotto  anticamere tutto a posto, c’era poco, ho dimenticato di svuotare la scrivania del papà, lasciate ciafrusaglie in vetrinetta, i maissen sono sbeccati  ma non sapevo se buttarli lo stesso.

Cucina buttato via tutto l’alimentare tranne zucchero caffè sale e un pacco di spaghetti non scaduti, buttate via le tazze sbeccate, lavato le cose che c’erano lì da lavare (lo scaldabagno era acceso, ho lasciato giù la tapparella e un filo di finestra aperta) .

Ho rimesso tutte le 4 chiavi dell’armadio della mamma che erano nel cassetto.

Ho lasciato fuori: gli attrezzi elettrici di cucina, così li vedi se ti interessano: il grill grandino TEFAL è ottimo per fare le cose grigliate, tipo la verdura e così, ce lo ho uguale, ti consiglio di tenerlo. Fuori anche i coperchi grandi, perchè se avevi preso le pentole grandi, magari sono i loro coperchi. Fuori anche calici e bicchierini, all’usato li prendono basta siano 12 e lo sono. Il servizio di posate nero nella zuppiera dorata è completo, da 6, e bellino. Nell’armadietto a vetrina ci sono anche 6 tazze da caffè con piattino, e  set di teiera etc bianche, sicuramente vendibili all’usato. Stesso criterio insomma per le altre cose esposte: se non le prendi tu le prendo io e provo a portarle all’usato. Ah, le pirofile, qualcuna mi serve (ne ho rotte un po’) una grande rettangolare l’ho già presa (ce ne erano due più o meno uguali).

Non ho toccato il letto di ottone pensando che magari ci ridormi, e neanche ho riguardato gli armadietti sul balcone, ormai era buio, sono andata dopo la mamma.

La roba che è a lavare cosa faccio? mica si può lasciargliela nella cesta e nella lavatrice.

La porto a casa la lavo e magari la prende la Rocio? ho guardato e c’era una felpa, che ti ho messo in anticamera, il resto mi pare biancheria e asciugamani SE&O.

 
Cristina

Qualche pensiero dopo L’Avaro.

Quand’ero ragazza l’andare a teatro era un avvenimento,  non era  cosa che si potesse improvvisare, o si potesse andare vestiti come capita: ai tempi erano i grandi teatri, il Manzoni, il Nazionale, il Piccolo… perfino la Boheme alla Scala, non avevo assolutamente idea che ne potessero esistere di piccoli, piccoli davvero,  o piccole compagnie, nè mi sfiorava il pensiero che gli Strehler non nascessero già Strehler,  e gli autori non fossero Brecht, Shakespeare, o Goldoni.
Era comunque un’emozione speciale.
In ufficio un giorno arrivò Silvio, un collega con cui feci buona amicizia, diverso dal bancario tipo – e quando mai non andavo d’accordo con le persone più bizzose?  Lo accompagnai un pomeriggio dopo l’ufficio a iscriversi al corso di mimo di Quelli di Grock, all’epoca erano in via de Togni, a Milano, a un passo da casa dei miei zii.  Un periodo di prova di tre mesi,  un piccolo esame per decidere se continuare o no.  insomma, Silvio riuscì a convincermi ad iscrivermi: mi sentivo già allora incapace di stare in pubblico, il fatto che i mimi per lo meno stessero zitti mi era sembrato rassicurante.   Ma non era cosa per me, mi sentivo strana, e inadatta: una ragazza che già si sentiva strana nell’atteggiamento necessario per fumare una Muratti, figuriamoci a far finta di tirare funi e cose così.

C’è da dire che continuai a cercare il teatro, come spettatrice, fino a quando diventai madre, quando cioè verificai sul campo l’efficacia delle leggi di Murphy:  qualunque cosa tu organizzi prima, e soprattutto se ti vincoli con una prenotazione, ecco, per quel giorno o sera che sia,  i tuoi figli hanno, minimo, o l’otite o l’acetone.
Ora, quasi vecchietta ma non ancora pensionanda,  mi ritrovo a dare una mano con incombenze varie  in un’associazione e in uno spazio dove si respira teatro, teatro ed espressione artistica, e penso che non vorrei  occuparmi d’altro. Vorrei, ma non posso, non posso ancora, non posso fare a meno del lavoro nè di  continuare a sperare che il lavoro non possa fare a meno di me.
Sto imparando a conoscere questo mondo, anzi, universo,  e il mio sguardo ora è molto cambiato,  è mutato in mezzo  a visi,  persone,  idee,  ascolti.
A riprova della ciclicità della vita,  oggi sono andata a vedere uno spettacolo al teatro LeonardoL’ Avaro di Moliere, di Quelli di Grock (ehilà, nel 2014 quarant’anni di vita della compagnia!)  un classico rivisitato, nel quale si mescolava la commedia  e la vita degli attori: se non avessi letto della commedia sul sito del teatro, non avrei saputo  che si trattava della commistione con un’altra opera di Moliere, meno nota, L’improvvisazione di Versailles, un’idea  allegra e ben venuta.
La vicenda credo sia nota al mondo, e non sto a raccontarla… guardavo lo spettacolo e volevo cogliere cosa mi piaceva tanto del teatro.
Una cosa l’hanno detta gli attori alla fine dello spettacolo. “Accade tutto qui”.
Infatti.  Tutto si svolge sotto ai tuoi occhi. Un po’ come i giochi dei bambini, “facciamo che questo è un castello, tu sei il coccodrillo ed io il cavaliere”…  sineddoche, simboli. Una poltrona e un tavolino sono un salotto, e non ti accorgi che non ha le finestre, non ci sono ma è come le vedessi.  Sei attivo, completi le parti che mancano,  e parimenti ridi per cose per cui, a freddo, probabilmente non rideresti, rideresti solo per compiacere  chi le racconta.  Qui… allora, scatta un legame con l’attore, direi.   Parlo del ridere perchè quella di oggi era una commedia.
E poi resto affascinata dai movimenti, che sono un linguaggio ulteriore, i linguaggi sono costituiti da simboli, segni, no?  Movimenti che son spesso come una danza, come una ginnastica, appunto,  artistica.
E infine i costumi. Camiciola beige, culotte a righe, e sono i guitti, gli inservienti. Con un cappello diverso sei cuoco o cocchiere.   Con un giacchino di velluto diventi il segretario, con un giacchino dorato il figlio dell’avaro, con una gonna lunga e una cuffia la modesta Mariana, con un cappello vistoso e due gote rosse  la combinatrice di matrimoni Frosina.
Credo sia questa magia qui che mi piace tanto, questa alchimia così semplice e vitale.

Il Do

La villa di Stresa dei cugini per me  bambina solitaria in vacanza era un paradiso.  Credo che lo possa essere per chiunque apprezzi la bellezza e certe atmosfere.
Innanzitutto, era in riva al lago,  mentre la nostra  era più in alto,  e in darsena non ci si ndava  quasi mai;  lì invece si poteva fare subito il bagno, e poi si pescava, tutti insieme. Qualche persico, ad esser fortunati, e gobbetti colorati, cioè i persici sole, e poi c’era la danza delle alborelle,  così l’aveva chiamata Camillo, la moltitudine di pescetti che si incuneavano tra le rocce e facevano baluginare i loro  argenti. Poi in giardino c’era una tartaruga, Soffione, tutte le volte da trovare dove si era nascosta, e  poi la tenda grande, il ping pong, in primavera i rododendri perfino arancioni, e la pianta sensitiva, e la loro nonna che al suo compleanno invece di ricevere i regali li voleva fare lei, e questo mi ha sempre strabiliato. Io ero spesso sola, tranne quando venivano loro a giocare da noi, ma preferivo quando andavo giù io da loro.  Non c’erano solo Camillo e Marella, ma anche i loro cuginetti più piccoli, l’Andrea il Giovanni il Carlo e il Pildo, e qualche volta loro amici.
Oggi mi è venuto in mente  il Do, non so perchè, forse perchè stavo ascoltando musica e lui suonava il pianoforte, dava lezione a Camillo.  Il Do, non re, mi, fa, sol, la… forse la nota più… al maschile?  Il suo nome era Franco Verganti.  Non è che abbia dei ricordi personali, solo, una volta che era finita la lezione, Camillo veniva a giocare, e veniva spesso anche il Do, ed inventava qualche gioco… mi pare di ricordare una specie di mini caccia al tesoro, diceva un colore e si doveva portare qualcosa di quel colore.  A me che venivo da una famigllia bancaria faceva specie  l’idea di un maestro di piano che veniva in vacanza con te, ma di sicuro non era  strano nella casa della musica per eccellenza.
Me lo ricordo già un po’ in età e con non troppi capelli, in questa foto era evidentemente più giovane.  Ora che ho un po’ a che fare con la musica, marginalmente,  il Do mi è forse tornato in mente come esemplare ravvicinato di pianista,  e sarei curiosissima di ascoltarlo oggi, che ci capisco un po’ di più.
Così,  ho spulciato un po’ su Google,  e oltre alla foto ho trovato questo libretto di partiture, si doveva essere molto dedicato alle nuove leve pianistiche, e un accenno qui, uno dei due pianoforti nell’esecuzione con Renata Scotto della Petite messe solennelle di Gioacchino Rossini. E quanto alle esecuzioni, ho trovato appunto solo questa!

 

Il mostro delle scale mobili

Le scale mobili per me bambina erano quelle della Rinascente, o della Stazione Centrale, poi sono arrivate quelle della Metropolitana, Linea Rossa.
Erano emozionanti, quasi magiche, ma… c’era un ma.  Quel mostro coi denti che ti aspettava alla fine della scala, era pronto a farti male, perchè tutti mi dicevano attenta, salta… ancora oggi lo guardo con apprensione, io arrivo, il mostro mi aspetta, sinora non mi ha avuto.

“Miguel fermati” grida la mamma sulla scala mobile della metropolitana gialla di Brenta, ma il bambino non l’ascolta, saltella, sempre più lontano dalla madre, la madre lo minaccia, “dopo vedi cosa ti faccio” ma Miguel è sempre più in basso. Poi si ferma, si volta e guarda la mamma, resto col fiato sospeso, si sta avvicinando al mostro coi denti,  non torna indietro,  gira le spalle al mostro, non lo vede… eccolo sul mostro, Miguel barcolla, non cade, la mamma lo raggiunge, lo prende per il braccio “Devi stare vicino alla mamma” e gli allunga uno scapellotto.

Dopo anni di attesa, oggi ho visto cosa può fare il terribile mostro coi denti.

Tombolo

Stasera, scegliendo i gusti del gelato, mi è tornato in mente il Paciugo, un gelato che adoravo nella mia infanzia, assaggiato più volte nella sua patria di origine,  Portofino,  accontentandomi in seguito della sua interpretazione rapallese, nel locale dove giocava a carte mia madre.
Per associazione di idee, sempre un po’ svagate, le mie associazioni, sono andata oltre, nel ricordare:  un viaggio in yacht con amici di mia zia e il loro figlio mio coetaneo, e  mia madre, per l’occasione le dovevano aver strappato il mazzo di carte dalle mani, o le avevano promesso di rientrare in  tempo, nel pomeriggio.
Doveva essere intorno al 1962.  Si partiva dal porticciolo di Rapallo, lo yacht si raggiungeva con la scialuppa.  Possibile che non ricordi mia madre in costume, però ho in mente un foulard?
La partenza, il vento, le onde, la speranza di vedere delfini,  il Claudio mi faceva esplorare l’imbarcazione, e la cabina col timoniere:  ero preparatissima, tutto  quello che sapevo sulla navigazione  lo avevo imparato leggendo Topolino.  Sosta, si fa il bagno, il marinaio ci sorveglia: nessun pescecane.
Si riprende la navigazione, e quando si naviga  poi isi finisce con  l’approdare, e  pranzare dentro un ristorante: mi ricordo un paese, una piazza, e negozietti con vecchie sedute fuori che lavoravano al tombolo.
Io questa parte qui non so mai se l’ho sognata o no.  Sono sicura che fosse Portofino… ma possibile che questi negozietti, siano tutti spariti in  cinque o sei anni? Perchè tornata in loco adolescente, Portofino era già carissima, e  quei negozietti mi parevano spariti.
Certo, il viaggio mi era sembrato lungo ed emozionante,  Rapallo-Portofino non sono così distanti, è percorribile anche a piedi,  ma da bambini si ha una percezione diversa, delle distanze e del tempo,

Il profumo di caffè.

Il profumo del caffè quando apro la vecchia scatola di latta nera, ed il coperchio ermetico. Una delle poche cose sopravvissute negli anni, con la caduta in disuso delle torrefazioni, dove il caffè lo si comprava in sacchettini, e te lo macinavano sul momento.
Ai tempi,  bere la sambuca con la mosca era ancora facile. Non sono una bevitrice di sambuca con la mosca, ma suppongo ora si sia fatta una faccenda complessa, devi rintracciare una torrefazione per comprare una manciata di chicchi di caffè, oppure il super ti dà l’opportunità di  comprarne una confezione da  minimo  250 g, ottenendo così una quantità di mosche che  ti seguirà tutta la vita, il loro aroma no, però.
Posso affermare con sicurezza che i barattoli sono gli stessi, perchè quand’ero ragazzina li ricoprivo di carta colorata e ne facevo portamatite.  Poi anche questo svago creativo divenne inutile perchè una marca di caffè, forse Suerte, forse Splendid, aveva inventato i barattoli non più di latta, ma di plastica, e tutti colorati. Mia sorella ne era gran consumatrice, e son di quelle cose indistruttibili che alla lunga diventano imbarazzanti. Il primo dici, oh che bello ci metto le matite. Nel secondo i pennarelli. Nel terzo forbice, righello. Nel quarto, i pezzi piccoli del Lego.  Nel quinto, le sopresine dell’uovo kinder dei bambini, ma solo quelle che si disfano sempre. Poi, i bottoni.  Poi le viti, le viti con la testa a croce, cioè la soluzione salomonica all’antico dilemma delle monetine.   Insomma, l’invasione degli ultracorpi era uno scherzo al riguardo. Credo di averne ancora nel box, e son passati più di quarant’anni.
Insomma, a me piace aprire il barattolo del caffè, per il profumo che si sprigiona. Al venerdì sera le caffettiere le preparo quasi tutte, un esercito di cinque, esclusa quella grossa grossa, la mattina del sabato è un avvicendarsi alla colazione. Ci verso l’acqua, la livello, ne esce un po’ sul piano di granito della cucina, resta invisibile, del resto essere invisibile è il suo lavoro da acqua pulita. Prendo la polvere, la sistemo nella caffettiera, livello anche quella. E’ un rito, va  seguito lentamente, con compunzione. Un po’ di polvere di caffè sfugge, cade nell’acqua, vi galleggia, in una relazione impermeabile e senza futuro. E’ un rito, ed i gesti abituali non occupano la testa,  e consentono  di pensare ad altro e restare  in silenzio, col cucchiaino che spiana le montagnette brune, e  debbo pensare tanto, no, qualcosa di meno creativo, debbo fare considerazioni e trarre conclusioni.

Pensieri senza titolo.

Questo video debbo averlo già postato nel blog, anche se non lo trovo.
Mi rifugio qui, quando mi sento un po’ con le orecchie basse: nel 1969 si voleva cambiare il mondo, si pensava a un futuro. Oggi questa vitalità, questo slancio mi sembra smorzato assai, tutt’intorno, perfino l’uso delle droghe ha cambiato significato,  da esaltante, ora mi pare solo un sintomo di frustrazione.
Nel 1969 avevo 14 anni, frequentavo la quarta ginnasio con risultati alterni, ero sempre stata custodita in famiglia e non avevo grande idea del mondo esterno. Avrei fatto conoscenza con il rock, con chi usava il fumo, e anche LSD, avrei visto il mio compagno primo della classe,  farsi crescere i capelli, poi tossico, andarsere a vivere, alla fine del liceo, in una casa okkupata.
Non sono mai stata hippy nè contestatrice sessantottina, nè ho mai apprezzato la ricerca di alternative in sostanze estranee,  però osservavo, leggevo, ascoltavo, ci rimuginavo, e l’ipocrisia, e il sesso, l’anarchia, e la natura, e la spontaneità… insomma credo di aver  rielaborato,  di essermi fatta tutta una mia scala di valori, che mi porto dietro tuttora nella mia vita borghese,  sempre stata borghese, e mi piace, la mia testa libera, almeno, così me la sento.  Le cose si cambiano anche standoci dentro, non occorre per forza essere contro.

La Clementina

La Clemenina passava per casa come una meteora.
Arrivava, convocata,  nelle mattine invernali, con il suo cappotto nero, ed un foulard con delle rose, su un fondo bianco e grigio.  Come si vestisse d’estate non lo so, ci si ammalava d’inverno. Angela, prima che arrivasse, aveva fatto bollire quella specie di pentolino con dentro le siringhe e gli aghi che ballavano, e poi li aveva lasciati sfreddare. La Clementina quasi  non si toglieva neanche il paletot, si lavava le mani e  sforacchiava le natiche di turno con grande maestria. Ticchettava le fialette, agitava il flaconcino dell’infida penicillina, così bruciante. Il sacro rito dell’ago che aspira il liquido.  Ho sempre avuto il dubbio che centrasse veramente il punto di carne disinfettato dal cotone imbevuto di alcool. secondo me finiva sempre un po’ più in là, ma tutti, mica solo la Clementina: forse sono io che ho i neuroni spostati.
La Clementina,  nonostante il  colorito roseo,  che crescendo avrei imparato a riconoscere come couperose,  aveva la sua età, eppure correva tutte le mattina da una casa all’altra. Alla sera verso le sei invece faceva andare a casa sua, una casa di ringhiera in via Scarpa, una vietta che congiunge via Guido d’Arezzo con corso Vercelli. Adesso sarà diventata una casa ristrutturata da una sberla al metro quadro. Mi ricordo che in via Scarpa c’era la boutique dell’Equipe 84, e ci guardavo sempre dentro sperando di vedere i quattro. Non che poi volessi l’autografo, bastava vederli, non che dubitassi delle loro sembianze umane, mi stavano anzi un po’ antipatici, ma ero curiosa lo stesso. Quando si saliva dalla Clementina, c’era già la tavola apparecchiata per due, viveva con la sorella, ed essendo a  casa sua non doveva più correre ed  allora raccontava un po’ di quanti clienti aveva, e che stava diventando troppo vecchia. Io la interrogavo su teoria e tecnica delle iniezioni, ma non ho mai avuto il coraggio di farne a nessuno.
Non so se ci sono ancora Clementine che corrono, nelle mattine invernali.
Una volta che ne ho cercata una, parecchi anni fa. mi hannoindicato una robusta signora brasiliana di colore, che rideva in modo assai sonoro, e mi chiamva signora. ma non me le ha volute fare, le iniezioni di  calciparina che ci si fa da soli nella pancia ma io ero paurosissima, così avevo dovuto arrangiarmi. La incontravo poi in giro col suo cagnolino, e rideva, raccontava  che aveva il cagnolino nero così non dicevano che era razzista.
La Clementina  però era un’altra cosa, apparteneva al mio Piccolo Mondo Antico.

Solitude

Dicono delle folaghe che siano uccelli che stanno in grandi gruppi,  eppure quelle che vedo nel lago sembrano abbastanza solinghe, a Pallanza ne bazzicano tre, una sta più sola delle altre due, ma non ho scoperto se le due siano coppia, non avendo visto pulcini folaghi, forse son solo compagni di sbronze, e la solitaria è una ragazza per bene che non si fa vedere troppo in giro con loro.
Credo di essere stata una bambina sola, di essere cresciuta con l’abitudine a stare per conto mio.  Credo di essere cresciuta da spettatrice, delle vicende della mia famiglia, che non sempre, anzi quasi mai, mi venivano spiegate, ed allora scrutavo, forse è stato così che ho imparato a cogliere gi sguardi, e le inflessioni delle voci, a mettere insieme pezzi, le menzogne. Mi parlava mio padre, e mia sorella Marisa la sera, quando mi accompagnava a letto e mi raccontava le storie, le inventavamo al momento, protagonisti due scoiattolini, Perri e Milly.  Leggevo tantissimo, leggevo e quando finiva un libro, a volte lo ricominciavo, I ragazi di Jo li conoscevo tutti, eravamo amici.
Andavo ai giardini la domenica col papà, al Parco, o quando mi lasciavano a casa di Gloria, in via Pallavicino, non erano ancora i giardini perfettini della Milano “su” di adesso, dovevano costruire l’asilo, c’era la terra, e pietre, e le lucertole che facevano capolino da assi buttate a terra. Gli amici, erano amici di Gloria.
Non so, dopo un po’ che sto in mezzo alle persone ho bisogno di andarmene, sia in senso fisico che mentale, ma non perchè voglio loro male o non mi interessano,  è come un richiamo  ineluttabile, e questo mi accompagna da sempre, il bisogno di stare per conto mio un po’, chè tante volte, a star con gli altri, sembra che ti vogliano portare a giustificarti del perchè sei come sei. E io sono in un modo che mi sembra non sia sempre facile comprendere.
Un po’ folaga.

vedrete la musica, ascolterete le immagini

Così veniva presentato, quando ero piccola, il film di Disney, Fantasia, per il quale avevo una vera passione, non solo per i piccoli cavallini alati e  la Danza delle Ore con ippopotami in tutù e coccodrilli.
Ieri sera mi è successo con questo:

e come questo ho visto che ce ne sono tanti altri.
Ascoltavo la musica, e guardavo lo spartito, cercando di ricordarmi quella grammatica, e la frequenza delle note ha preso forma nella musica…affascinata ho seguito gli spartiti, e poi ancora, riproduci il video.
Forse, per osmosi, posso arrivare a comprendere meglio il linguaggio musicale?
E’ una delle cose in lista ” da fare prima di morire” come l’imparare a dipingere con gli acquarelli, solo che se la pensione me la spingono sempre più in là, mi rovinano i piani.
E qualche volta penso che morirò presto, mi fa paura la casa dell’Oltrepò, così piena di crepe verticali e orizzontali, forse vuole inghiottirci, e allora se muoio presto sarebbe il caso di non rimandare nulla.
Anni fa, avevo  cominciato a lavorare da poco, un giorno a casa ha suonato il campanello, ed era un pianoforte. Non che non avessi avvisato i miei genitori o la cameriera, di aver noleggiato un piano forte, ma credo non mi avessero dato retta.
Insomma, avevo questo piano verticale in camera, ed andavo a lezione un paio di volte la settimana da Susanna, in via Lovanio, quasi la cerco che debbo ancora restituirle una guida turistica su Firenze, mica l’ho buttata via, si sa mai nella vita. Così un po’ le note le avevo imparate, le palline vuote e piene, e le minime e le biscrome… ora non mi ricordo più nulla, mi ricordo che le frazioni di note dovevano fare l’intero, che equivaleva alla pallina… era così? Mah!  In ogni caso, il mio solfeggio era di uno stonato pazzesco, potrei sognare me che solfeggio  una notte che ho gli incubi. E per suonare, mi vergognavo a provare, mi vergognavo con gli stessi tasti, mi vergognavo che mi sentissero, un po’ la vergogna che provo a cantare o stare in pubblico.  Forse mi riesco ad esprimere scrivendo e con le fotografie, perchè non appaio.
Fatto sta che il pianoforte dopo giorni e giorni di silenzio se ne tornò alla Ricordi.

Rifiuti, quelli che si buttano.

Stamattina leggevo in Facebook considerazioni come Pizzarotti abbia vinto a Parma con il discorso di non costruire un inceneritore a Parma, e consideravo come questa cosa non sia una soluzione, perchè alla fine, una zona o l’altra, resta con il fiammifero più corto, e si trova l’impianto di smaltimento rifiuti in casa, e se protesta uno, han diritto a protestare anche gli altri, mica che son più brutti.
Piuttosto che niente, meglio riciclare. Meglio di tutto, sarebbe riciclare un volume minimo di rifiuti, perchè a zero rifiuti appare difficile arrivare,  un po’ ce ne saranno sempre.
Mi chiedevo, ma una volta come si faceva, come si raccoglievano i rifiuti negli anni ’60 a Milano? Mica mi ricordo bene.
Senza dubbio, i rifiuti una volta erano meno, ripenso alla cucina di quando ero piccola.
Il pane secco, veniva grattuggiato.
La carta oleata, quando restava pulita, veniva conservata e si riutilizzava per impanarci le cotolette.
In cucina uno straccio per pulire il piano di marmo, e il lavello, mica metri di scottex.
Lo scottex lo usi e lo getti, lo straccio lo lavi: certo, anche lavando, coi detersivi inquini. Forse, con il vecchio marsiglia, non si inquinava molto.
L’ortolano usava i sacchetti di carta marroncini, ed a volte la carta di giornale, e sono sopravvissuta agli anni di piombo. Il tonno si consumava raramente ed era servito in pezzi, ed anche i wurstel non andavano in fila di quattro. La carne veniva comprata per consumarla in giornata, o il giorno dopo.
Anche la farina veniva venduta a peso, e lo zucchero, e me la ricordo, la carta da zucchero color carta da zucchero. E l’ortolano vendeva cose di stagione, mica avevi fragole tutto l’anno, nei contenitorini di plastica.
I supermercati non esistevano ancora, almeno nella mia realtà primi anni ’60, e non ricordo allora i sacchetti di cellophane, ma solo Bramieri in tv che diceva, e mo’ moplen.
Il latte era in bottiglia, che restituivi al lattaio. Poi fu il latte in tetrapak.  Ma i vuoti a rendere delle acque minerali, e delle  coca cola, sono andati avanti sino al 1990 circa, li tenevo e li riportavo all’Unes, e ti davano lo scontrino da scontare con la spesa.
La rumenta, veniva buttata in uno sportellino nel muro delle scale di servizio, e finiva dritta in un bidone, questo si poteva fare sino all’avvento delle prime suddivisioni imposte ai fini del riciclo.
In campagna anche oggi  la mia vicina, brucia le carte nella stufa e gli avanzi di cucina li passa alle galline.
La vita frettolosa ed i supermercati, e la velocità nei trasporti, hanno cambiato questo piccolo mondo antico.
Io però non riesco a ricordarmi come all’epoca portassero via la pattumiera dalle case, e come la smaltissero, ero piccola, forse è un problema che non mi sono mai posta, la pattumiera cadeva giù dallo sportellino, e finiva così.  Mi ricordo lo spazzino, lo strascee, e l’arrotino.  Ora, tengo via degli stracci, ma mi accorgo che si usano pochissimo, e per le lenzuola rotte e cose così da buttare, mi hanno detto di un’organizzazione che le manda ai lebbrosi di non so dove.

L’ora di religione.

Adesso che in ufficio siamo sistemati come polli d’allevamento, isole di quattro con separè, se devo disturbare un po’ il Paolo di fronte sono costretta a tirargli un pallino di carta al di là delle ostruzioni. E’ checoi tramezzi  non vedo neanche se c’è, lavoriamo a testa china, e magari gli parlo e lui invece era andato a fumarsi una sigaretta. Oggi il pallino era fatto con  un foglio intero, e me l’ha rilanciato, così mi son ricordata delle ore di religione, alle medie, con il pallido don Franco. Degli ordini religiosi non ci capisco niente, il padre Ettore delle elementari assomigliava ad un topino dotto, con gli occhiali, e gli occhietti, il saio marrone, e i sandali, d’inverno con le calze però.
All’epoca ero innocente, e non sapevo ancora che ne avrei sposato uno, non frate, ma uno che girava con i sandali e le calze, tranne che da novembre a febbraio, ma i sandali sono venuti dopo, e secondo me possono essere un motivo plausibile in una causa di divorzio.  Comunque padre Ettore – ma se era frate, perchè Padre e non fratel?come il più famoso – insomma, padre Ettore lo si stava anche a sentire, perchè leggeva le parabole. E poi c’era la maestra che dava i voti in condotta al sabato sul diario, e quindi guai. Padre Ettore lo ritrovavamo anche al catechismo, c’era la signorina Oreni che ci portava in fila indiana dalla scuola alla Parrocchia. Io non studiavo mai, le virtù teologali, i comandamenti e le preghiere mi annoiavano, a memoria,  così un giorno la signorina Oreni bis, che erano due, una smilza e l’altra no, mi disse che stavo addolorando Dio. Qualunque bambino ottenne potrebbe essere segnato, da una cosa così., io invece non cambiai affatto, non mi piaceva studiare a memoria,  neanche la geografia, però mi piacevano le storie, e per mio conto leggevo e rileggevo la Bibbia per i ragazzi, e anche l’Enciclopedia dei ragazzi Mondadori, quella dei tempi dei miei fratelli. C’erano capitoli di mitologia, di religione, di animali, ed io li divoravo, e Agar ed Ester. La geografia invece  l’ho imparata sulle carte geografiche appese in classe, una  compagna diceva un nome della cartina e chi lo trovava per prima faceva un punto, quando toccava a me dicevo sempre Vladivostok.
Le medie sono un capitolo triste, per l’ora di religione. Veniva appunto Don Albanese, lui parlava, e non lo ascoltava nessuno. I ragazzi si tiravano di tutto, pallini di carta e gomme,  e a me il Padre sembrava un po’ disperato. Anche  a voler ascoltare, non ci si riusciva. Mi  è capitato di reincontrarlo per strada qualche volta, nella mia adolescenza, e ci si salutava, forse un po vergognosi entrambi, con un segreto dentro, quelle cose che non si dicono… lui, di non aver saputo insegnare, io, di aver fatto parte di una classe così, e non ero mai stata attenta. Credo mi venissero dati discreti voti in religione per non rovinare la mediocre media, e forse perchè ero più composta di altri.
Dopo il capitolo triste delle medie, mi pare tragico quello del liceo: non mi ricordo neanche il viso dell’insegnante di religione. Però mi sembra strano che mio padre potesse aver firmato l’esonero dalle lezioni.

La scuola – 1

Ho cominciato a frequentare la scuola pubblica dalla terza elementare, in via Moscati, una traversa di Corso Sempione,  ed ero “avanti un anno”, mi dicevano così. Guardando e riguardando uno dei libretti da piccini, che spesso altri mi leggevano, le lettere avevano  cominciato ad avere un significato, e ero corsa dalla mamma ” mamma so leggere, senti” e avevo letto, piano, quasi una lettera per volta, e doveva essere vero,  perchè qualche giorno dopo ero nella segreteria dell’Istituto San Celso, col mio orsone  giallo e naturalmente con la mamma, ed una tipa mi chiede: “Iscriviamo all’asilo questa bella bambina?” ed io risentitissima “Alle elementari!” Se l’abito non fa il monaco, neanche l’orsacchiotto può fare la bambinetta dell’asilo.
Dell’asilo non avevo poi un gran bel ricordo,  un anno dalle suore Marcelline, davanti alla Chiesa di Santa Maria Segreta, queste suore tutte nere, le noiosissime lezioni di vocaboli francesi, e la crudelissima risata generale quando a suor Clotilde si era allentata la cuffia e abbiamo visto che non aveva i capelli. “Cabaret” diceva, e ci faceva vedere il vassoio,  noi tutti in coro ripetevamo ” Ca-ba-ret”, e poi verre, e poi eau, e via di stoviglieria.
Però, io la cosa delle lettere che prendono forma, me la ricordo benissimo.
Al San Celso eravamo in classe mista, ed ero innamorata del  Sandro  biondo con gli occhi azzurri, mentre era l’altro Sandro che voleva fidanzarsi con me. Non ho dei ricordi particolari di nessun altro,  se non della Lidia, jugoslava, che doveva venire a giocare un pomeriggio da me, poi non  avevano più potuto accompagnarla e c’ero rimasta malissimo, una tragedia con pianto inconsolabile. Riguardando la foto,  so però ancora un sacco di nomi: uno dei   compagni,  giusto uno di quelli  che non aveva lasciato alcuna traccia nella mia memoria, l’ho poi ritrovato come boy friend di mia cognata, ma questo è meglio non ricordarlo più di tanto. Anche la maestra aveva un nome indimenticabile, Amalia Mela,  era bionda e le volevo bene, non aveva niente della fattucchiera, non le importava niente del cent di Paperone nè  voleva avvelenare Biancaneve. E se ho svelato qui il nome della mia maestra, è solo perchè nelle domande di sicurezza degli account scelgo sempre “la marca della tua prima bicicletta”.
Di una cosa mi sento sicura, non avevo ancora, a quel tempo, la sensazione di cane sciolto, di solitudine in mezzo alla folla, che mi avrebbe seguito tutta la vita, dalla terza elementare in poi.

La tirlindana

Capitava che mio fratello mi portasse con lui a pescare.  La mamma mi faceva mettere il costume intero rosso, una maglietta, le ciabatte e, quando lo si trovava, un cappello di paglia da gondoliere, e ci incamminavamo per il vialone,  lungo il vialone i mirtilli, e il bianco della villa dei De Micheli, poi la curva col castagno gigantesco e il ponte sotto la ferrovia..
Il cancello della darsena si apriva cigolando, come è dovere dei vecchi cancelli poco usati,  con la vernice color ruggine che si sbrindella, e i rami dei tigli un po’ tropo cresciuti ci  frustavano il viso, e qualche ragnatela.  Delle tele di ragno di distendevano anche da tubo a tubo della ringhiera, che circondava la terrazza sul lago.  Scendevo dietro Giorgio per la scala che portava verso il lago e la spiaggetta, tutta piena di sassi e di rami. La barca stava in una specie di garage, di hangar, pieno di pinne spaiate, materassini sgonfi… insomma, l’atmosfera era quella un po’ in disarmo, di quando le cose son di tutti, e quindi di nessuno.  Sotto la terrazza c’era, chiuso da una saracinesca, il posto per le barche e i motoscafi, con qualche cavedano che ci nuotava pigro, ma lì le barche non ce le lasciavano mai, non so perchè.
Aiuto Giorgio a far scivolare la barca nell’acqua. Facciamo un po’ per uno con i remi, mi è sempre piaciuto remare e lo so fare bene, la meta è l’Isola Bella,  una zona pescosa per i persici. Quando siamo in zona, Giorgio mi spiega, si pesca stando seduti a poppa, e si srotola il filo di rame al quale è attaccata la lenza, e l’esca. L’esca erano le alborelline che si compravano o i lombrichi cicciosi che cercavamo nei pressi dell’orto del Gianni, sollevando zolle d’erba, nella terra,  con quel meraviglioso odore di fungo e di castagno che ha da quelle parti. Il filo si deve muovere un poco, ed evitare che si incagli, e chi è ai remi deve remare lievissimamente, immergendo poco i remi, facendo poco rumore.
Non so dire se mi piacesse di più pescare o remare, silenziosi in mezzo al lago, e l’emozione del pesce che abbocca, e poi il sole comincia a scendere, è l’ora migliore, ma bisogna tornare su a casa.

Piripippìri

Piripippìri, si faceva col clacson quando si era imboccato il vialone della villa dalla provinciale sul lago, e si era passati sotto il ponte della ferrovia che lo tagliava, e si stava arrivando a casa. Piripippìri,  lo si sentiva dalla terrazza in faccia al lago, si attraversava il salotto e si andava ad aspettare il corrispettivo parente all’ingresso, sulla ghiaia  vicino al grosso faggio, i suoni dei clacson non erano tutti uguali e si sapeva chi arrivava.
Il pirippipiri lo aspettavo il venerdì sera, quando arrivava il papà da Milano con le caramelle, gli zuccherini, o le gocce di zucchero col rosolio, e le caramelle ripiene alla frutta.
Alla sera, nel letto, invece di leggere e rileggere il librone con le fiabe di Baba Yaga e della Regina delle Nevi, mi piaceva dividere gli zuccherini per colore, e fare le parti per darne un po’ a mia cugina Ambra. Mi piacevano quelli turchesi, anche se quelli semplicemente bianchi sapevano di menta, e quelli rossi, perchè le caramelle rosse da sempre hanno una loro attrattiva, ricordano ciliegie e fragole. Non era facile trovare un modo per dividerli, che non gliene dessi troppi, o troppo pochi. Lasciarle quelli dispari, erano troppo pochi. Metà, troppo, anche perchè intanto qualcuno lo mangiavo. Era un casino con le gocce con il  rosolio, erano delicatissime e spesso già qualcuna eragià  rotta, e le dita si appicicavano.
Non so che casino lasciassi sulle lenzuola della mamma, prima di trasferirmi nel mio letto di fianco, che non aveva la lucina sul comodino. Per le caramelle ripiene, ma incartate,  tendevo ad imbrogliare un po’, tenendone di più di quelle alla mora e cedendo quelle alle prugne. Alla fine, facevo a metà.
Se ora ci penso, non so come non avessi paura… mentre tutti  i grandi stavano al piano di sotto, chi non era andato a Stresa o da qualche parte,  io soldo di cacio ero  a leggere nel letto da sola al primo piano di quella casa enorme, e sopra ancora un piano, vuoto perchè erano tutti giù, lo dico, perchè ora forse l’avrei, il pensiero di sentir qualcuno salire per le scalinata, con il  corrimano di legno su cui scivolavamo per andare da basso, mia cugina ed io, lei di sei anni più grande di me.  Una sera, sento che qualcuno sale, ed apre la finestra di fronte alla porta della mia camera  e va  sul balconcino di legno, quello che dava verso il faggio, era mio cugino, il fratello maggiore di Ambra, con qualcun altro, per uccidere i  ghiri, ed allora mi ero alzata anch’io ed ero andata lì a vedere cosa facevano. Uno illuminava i ghiri con la torcia, che restavano lì dov’erano, imbambolati, e gli sparavano.
Non capivo bene il perchè di tutto quello, ma  mi hanno portato via subito, forse per paura degli spari, spero lo abbiano fatto per evitarmi lo spettacolo, perchè ancora oggi, se ci penso, a quelle bestioline illuminate ferme appiattite sul ramo, mi sale un nodo qui, e  mia sorella che una volta  aveva trovato un piccolo ghiro e cercava di salvarlo  dandogli il latte con un contagocce.