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Due colonne, salvate dopo l’abbattimento del muro di cinta, fanno da porte su uno spazio aperto di aiuole e viole del pensiero. Poi il cancello vero, chiuso, e la reception. E il corridoio con le lapidi incise con i nomi dei benefattori, e l’anno. Si fermano al 2006, il nome di una Fondazione. Poi un’altra lapide aspetta, un foglio di marmo rosa. E poi lo scivolo e le scale, e il corridoio lungo.
E l’ascensore lentissimo che parte con un sobbalzo. Stanza a destra, letto centrale. Un’infermiera sudamericana dall’aria dolce dice a lei, ed a me appena arrivata, “Vede, non deve pensare di essere l’unica paziente. La flebo così va bene” L’ammalata è rabbiosa, non è convinta, non è soddisfatta. E’ agitata, freme, si lamenta, si lamenta di essere scivolata giù dal letto, così ora di notte la legano, e la maschera dell’ossigeno, e la flebo che non finirà mai, e non potrà mai superare una notte così.
“Mi danno fastidio i piedi, le calze.” dice rannicchiando le gambe ossute e poi distendendole. Sta immobile, e sembra vibrare. Lo sguardo si ferma, gli occhi sembrano fissare un fantasma. Le porgo il cellulare con il numero fatto, attende di sentire la voce, come aggrappata al telefonino, parla, sorride, si distende un po’. Parlare al telefono è una cosa normale, una che faceva tutti i giorni.
“E’ inutile che veniate qui, non sono di compagnia, non sto bene”
“Ma siamo noi a farti compagnia, sei qui, magari ti passa di più il tempo, quando stai bene hai le tue cose da fare no? Ma se non ti va, verrò meno…”
" No, è che state qui e mi vedete agonizzare. Me la sono cavata tante volte, ma questa volta sento che non ne esco”
E’ difficile rispondere a queste cose. L’osservo, la bocca serrata piegata all’ingiù, e gli occhi come fissi in un punto. Un’espressione indefinibile… la bambina che non riesce più ad ottenere quello che vuole, e sta subendo un’ingiustizia…. vedo i suoi pensieri che mulinano, ripetitivi. Non vuole arrendersi, e ha paura.
Ho paura anch’io, di quello che leggo in quel suo sguardo.