Archivio mensile:aprile 2013

Opinioni.

Oggi a Roma, un quarantanovenne  calabrese in giacca e cravatta, muratore, due volte  separato, padre, con problemi economici, disoccupato, col vizio del videopoker, incensurato, e che non ha mai dato segni di squilibrio mentale ha sparato davanti a Palazzo Chigi contro Carabinieri innocenti, ferendone due, uno gravemente, forse resterà paralizzato, ed alcune schegge di proiettile hanno colpito di striscio una donna incinta che passava di là.
Il feritore a sua volta ferito viene catturato, buttato a terra, sembra schernire, chiede di sparargli, interrogato confessa tutto, voleva colpire i politici, nessuno in particolare, non c’è riuscito, ha mirato i carabinieri, voleva poi sparare a sè stesso ma aveva finito i colpi, ha premeditato tutto una ventina di giorni fa, possiede la pistola da 4 anni, acquistata al mercato nero.

Il primo pensiero corre alle vittime, potevano essere nostro figlio, nostro padre, fratello, il miglior amico, stavano svolgendo il loro lavoro, non facevano male a nessuno, la vita di uno di loro è devastata.  C’è  anche chi inneggia al feritore, naturalmente. C’è chi dà la colpa alla controparte politica che semina questo clima di intolleranza e violenza. Il fratello del feritore afferma che non ha mai dato segni di squilibrio mentale, l’ex moglie dà ai cronisti la risposta più ovvia “Come pensate che abbia reagito?” e si allontana.
La violenza  non ha giustificazione mai, il feritore  deve espiare il male che ha fatto ad uno sconosciuto  innocente devastandogli la vita.
Ma dove stiamo andando?
L’Italia è il Paese dove il dito medio alzato,  uno dei metodi  espressivi prediletti da certa parte politica, è assurto a monumento, collocato di fronte alla più importante sede borsistica nazionale.
La crisi è scoppiata  dove era denegata, non c’è lavoro, non ci sono soldi, non ci sono consumi, gli utili dove ci sono non vengono certo reinvestiti.  La classe politica non partorisce alcun provvedimento  economico se non a carico delle categorie  più indifese,  non sa dare il buon esempio privandosi di alcunchè. La distanza tra la politica e la gente aumenta sempre di più, di pari passo con la disoccupazione e la disperazione, non solo per il presente, leggasi anche come mancanza di altre prospettive future, se non quella di un ritorno al  feudalesimo.
Le elezioni hanno dato luogo a un teatrino disgustoso  e incomprensibile, per chi era andato a votare nella speranza di un cambiamento, anzi, di un miglioramento: basterebbe, senza tanti sproloqui, un po’ di serietà.
Si contano i suicidi per disperazione… quest’uomo ha voluto fare il gesto eclatante, forse pensava di fare da miccia per la rivoluzione, forse non voleva essere “solo” il suicida n. ics. E’ partito dal paese, nella valigia l’abito bello. Era la sua cerimonia. E’ spaventoso che a lui sembrasse giusto, l’unica cosa che restava da fare. Non voleva ferire un politico, o i rappresentanti di un partito, ma “i politici”. L’ho pensato disperato, senza lavoro, senza famiglia, e molto solo, perchè nessuno intorno a lui si è accorto di tanta disperazione, per aiutarlo, per fermarlo.
Quando ho sentito del videopoker  “ah ma allora…” certo,  il gioco, il vizio, lo sperpero, fanno meno pena, “se la vuole lui, la malasorte”.
Però abbiamo uno Stato che sul gioco d’azzardo ci guadagna, permette l’apertura di sale, l’installazione di macchinette, e ti ammonisce “Il gioco crea dipendenza” un po’ come le scritte sui pacchetti di sigarette, la foglia di fico, come se uno col vizio ci stesse a pensare, che un giorno creperà, anzi, creperà prima.
Dopo, lo Stato classifica la dipendenza tra le malattie, e il Servizio Sanitario Nazionale  la cura.
Dopo, lo Stato taglia le spese del Servizio Sanitario Nazionale.
Cari politici, è ora di cominciare a essere seri e a lavorare per noi: potete anche tenervela l’auto blu, ma guadagnatevela.
Ho guardato se l’uomo era sul social network, non l’ho trovato, del resto il giornalismo TV queste notizione prelibate sul “popolo di FB” non se le lascia scappare, lo avrebbero sicuramente detto al TG.   Perchè mi chiedo a volte, le onde di opinioni dei social e di certa stampa,  spesso  gratuite, non argomentate, che ricordano un po’ i linciaggi americani con pece e piume, o il rogo delle streghe, uno comincia e tutti gli altri dietro, che influenza possano avere su persone che leggono, e sono suggestionabili. Ce lo chiediamo mai quando scriviamo in web, o su un giornale? Nel senso, se magari ce lo chiediamo, e ci rispondiamo, può essere che si faccia anche un po’ di attenzione a come si dicono le cose.

C’è sempre un modo d’entrare.

C’è sempre un modo di entrare, rassicura Claude.
Uno strano film, Nella casa, avvolgente come il Bolero di Ravel, con la tensione di un thriller, senza sembrarlo.
Un professore sconsolato, con una moglie gallerista, un sedicenne infernale, una famiglia ignara i protagonisti.
Nel liceo dove insegna Germaine, diventa obbligatoria la divisa, e tra tanta uniformità e tra tanti temi spicci che parlano di cellulari e di pizze il professore si trova a leggere quello di Claude, che racconta del suo week end trascorso invece a casa di un compagno a spiegargli matematica, con osservazioni sarcastiche e amare sulla casa, la famiglia, Non solo, precisa di aver deciso di voler entrare in quella casa, dopo un lungo periodo di osservazione dall’esterno, dalla panchina del parco di fronte.  Il professore resta affascinato dal talento, e lo stimola a continuare, a migliorare, suggerendogli i trucchi del mestiere, dimentico della morale.
Ora, quello che fa Claude, il talento sedicenne che dice di preferire la matematica perchè, al contrario delle lettere,  non delude mai, non avrebbe in sè niente di particolare, se non l’essere un  tantino maniacale nella sua  predeterminatezza: osserva una famiglia di un compagno, lui che una famiglia normale non ce l’ha, e desidera farne parte, aiutandolo nei compiti, ma finisce ad essere dominato dall’immagine femminile, madre e donna dei due Rapha (il compagno e il padre portano lo stesso nome), che incarna il desiderio, della madre e della donna.
La storia, la realtà, diventa speciale perchè viene raccontata. Il professore, frustrato autore di un romanzo banale, cerca come una rivincita personale nell’esortare l’allievo, perdendoci la testa e la dimensione anche morale – una sorta di fascinazione, talchè viene sospettato di passione amorosa dai professori e financo dalla moglie, che è quella che lo riporta puntualmente al concreto, anche nella lettura dei temi del ragazzo, che finiscono sempre con la parola “continua”, che per il professore sembrano essere diventati una specie di droga, non ne ha mai abbastanza, quasi un gusto voyeuristico, assimilabile a quello provocato da certi programmi TV, com’era Il Grande Fratello. Quello che Claude sta facendo è immorale nel momento in cui riguarda affetti ignari, che rimarrebbero feriti da quello che scrive di loro, dal venire a sapere di essere spiati, analizzati, usati. Lo sguardo gelido del minorenne che viviseziona la realtà per scriverne sembra soggiogare, e semina distruzione, il suo talento è freddo come lo sguardo, l’anima è dannata.
Da spettatrice, sentivo come avvolgermi da una cappa,  avviluppante come l’andamento del Bolero,  sarebbe arrivato il momento dell’ esplosione, della disgregazione, ed avevo allo stesso tempo sia il desiderio di scrollarmela via, la cappa, che  quello di assistere alla fine, forse perchè in questo film le chiavi di lettura sono molteplici, il talento,  lo scrivere, l’insegnamento, la realtà e l’immaginazione, la famiglia, la morale, e ci sarà chi ne trova anche altre, e insomma volevo capire dove il film voleva andare.
Dove voleva andare? su un’altra panchina, a guardare le finestre aperte e illuminate di un condominio, in ognuna delle quali delle persone vivevano la loro vita.
Un film  che  mi ha lasciato un po’ perplessa, con dei personaggi di scarsa simpatia ed empatia,  eccetto la moglie del professore, forse l’unica positiva, e secondo me bellissima Kristin Scott Thomas;  forse a causa di insufficiente rodaggio, mi è stata insopportabile per tutto il film il labbro e  la  dentatura superiore di Fabrice Luchini, il professore.

Meglio pensare alle storie d’amore, ogni tanto, almeno.

Ro do tà  Ro do tà un terzo degli italiani Napolita no Napolita sì Suicidi per il lavoro Ergastolo per il delitto Scazzi finite le gite in pullman sul luogo del delitto Monti  for ever magari Andreotti la repubblica delle banane. Ognuno ha da dire la sua, non ho da dire niente, non ci capisco più nulla, è troppo oltre, il bianco e il nero, sovente scelgo il grigio, non è mica brutto, è un colore elegante e dignitoso. Ci vuole la rivoluzione,  sicuro. In uno stato integrato in un mondo globalizzato non la vedo facile. Non la vedo facile neanche perchè una rivoluzione, dopo una breve tregua, cambierebbe solo i commensali alla mensa, l’italiano è fatto che se può approfitta, a partire dal cioccolatino che accompagna la tazzina di caffè – cerca subito di averne due causa la familiarità col barista.  E  alla mensa, loro non son cambiati, son rimasti lì, e sanno come far girare i piatti… o una rivoluzione rigira anche loro? E non lo so, e quando tutto gira, balla, ondeggia, e non sai a cosa credere, a me fa bene pensare alle piccole cose, per riprendere un po’ di forza, di ottimismo, di sicurezza.
C’è un equilibrio al mondo, o forse una volta c’era, prima che l’uomo diventasse infestante, che si preoccupa del tarlo asiatico e non vede cosa fa lui.  Il problema dello smaltimento rifiuti è tutto suo, non c’è nulla in natura che non abbia la sua funzione, e mica dobbiamo insegnare noi alla natura cosa sia il riciclo.
Insomma, tutto questo per dire che, lasciata per ragionevolezza la casina di Pallanza, un pochino di anima mi è rimasta lì,  uno di quei luoghi che conosci come ti fossero già appartenuti in una vita precedente. Il lago Maggiore fa parte della mia infanzia, della mia crescita, è  paesaggi, nomi, colori profumi, ricordi… una specie di ventre materno, che non ho bene idea di come sia, perchè mia madre non è mai stata una di quelle madri lì, che ti avvolgono ti rassicurano e non ti fanno temere nulla, ti ovattano. Mica perchè fosse una madre ruvida e tosta, poco incline alle tenerezze. Era poco incline e basta, formalmente presente, ma non era  egoismo o indifferenza, era semplicemente il suo massimo. A Pallanza, se vuoi, puoi fare un sacco di cose, c’è il lago, la piscina, il tennis, le passeggiate, le gite in battello sino a ovunque, e il retro, Verbania, con tutto quello che può offrire un capoluogo di provincia sul filo di essere abrogata. IA me piace lasciar scorrere lentamente la giornata, e guardare il lago, scevro da affanni orari e scadenzini. E’ così che ti accorgi di quanto succede sul pelo dell’acqua, tra i volatili che vi galleggiano.  Perchè chi passeggia, dice oh le anatre,  e non si accorge che sono anatre folaghe e svassi, oh il cigno, perchè è grande e bianco.  E i gabbiani sono di due o tre specie, credo.  E i piccioni, i passeri e i merli. E l’usignolo lo sentivo di notte. Le oche sono tutte sparite dal porticciolo, e non so come, non voglio pensarlo.
Insomma, noi non sappiamo dove va l’Italia, non so che fine farà neanche il mio, di lavoro. Però loro sono lì, e forse neanche per loro le cose scorrono facili, ma non lo danno a vedere.
Sono tornata lo scorso week end sul lungolago,  dopo qualche mese di assenza.
La primavera prende in giro noi ed anche loro, è la stagione degli amori, ed io spero che sia per questo che le papere sono meno numerose,  che siano a covare nei nascondigli che non  ho mai scoperto.   Le anatre rimaste non hanno molto appetito, e quando sulla terraferma afferrano un pezzo di pane secco, diligentemente si dirigono verso l’acqua per pucciarlo e ammorbidirlo. Volano molto, fanno voli di coppia, lei in dimesso nocciola e lui in elegante verde blu grigio cangiante , e planano sull’acqua, prima lei, poi lui, forse è una forma di corteggiamento.
Svasso e svassa,  a breve distanza tra loro, si pettinano e si toelettano, per l’occasione il ciuffetto nero deve essere in bella mostra. Fanno finta di vedersi solo in quel momento, ben acconciati,  e si corrono incontro, e cominciano la loro danza dei colli, da lontano sembrano formare un cuore. Poi, nuotano insieme per un piccolo tratto, e si tuffano sott’acqua. Quando si sposano, ed in questo assomigliano ai cigni,  è per sempre, e allevano con cura i pulcini, che sono al massimo due; il cigno ne fa qualcuno in più, mai tanti quanti l’anatra, che però è una madre un po’ distratta… non rincorre i piccolini che si allontanano, semmai sono quelli che restano indietro a nuotare veloci e pigolanti  per raggiungerla.
Ma ci sono anche otelliane scene di gelosia. Sul lungolago bazzicano tre cigni. Una coppia e un single. La coppia l’anno scorso non aveva pulcini… quelli degli anni scorsi sparivano, pare li rubino,  e mi immagino il dolore  dei genitori, secondo me lo provano… Allo stesso modo penso che debba soffrire il cigno single, sempre solo. L’altra domenica c’erano i due cigni nel porticciolo, ed avevo dato del pane al cigno single appena fuori.

La coppia esce nel lago aperto, ed il cigno-lui  si gonfia e tutto piumoso si dirige nuotando contro il presunto minaccioso intruso, e lo costringe ad abbandonare i bocconcini di pane…. nuota via veloce, e l’altro dietro, si alza anche in volo, poi volano pesanti entrambi, uno in fuga e l’altro aggressivo, planano sull’acqua, e il “marito” sempre dietro, lontano, sempre più lontano… scompaiono entrambi dietro l’isolino di San Giovanni, e finchè sono stata lì non si sono più visti.


Il profumo di caffè.

Il profumo del caffè quando apro la vecchia scatola di latta nera, ed il coperchio ermetico. Una delle poche cose sopravvissute negli anni, con la caduta in disuso delle torrefazioni, dove il caffè lo si comprava in sacchettini, e te lo macinavano sul momento.
Ai tempi,  bere la sambuca con la mosca era ancora facile. Non sono una bevitrice di sambuca con la mosca, ma suppongo ora si sia fatta una faccenda complessa, devi rintracciare una torrefazione per comprare una manciata di chicchi di caffè, oppure il super ti dà l’opportunità di  comprarne una confezione da  minimo  250 g, ottenendo così una quantità di mosche che  ti seguirà tutta la vita, il loro aroma no, però.
Posso affermare con sicurezza che i barattoli sono gli stessi, perchè quand’ero ragazzina li ricoprivo di carta colorata e ne facevo portamatite.  Poi anche questo svago creativo divenne inutile perchè una marca di caffè, forse Suerte, forse Splendid, aveva inventato i barattoli non più di latta, ma di plastica, e tutti colorati. Mia sorella ne era gran consumatrice, e son di quelle cose indistruttibili che alla lunga diventano imbarazzanti. Il primo dici, oh che bello ci metto le matite. Nel secondo i pennarelli. Nel terzo forbice, righello. Nel quarto, i pezzi piccoli del Lego.  Nel quinto, le sopresine dell’uovo kinder dei bambini, ma solo quelle che si disfano sempre. Poi, i bottoni.  Poi le viti, le viti con la testa a croce, cioè la soluzione salomonica all’antico dilemma delle monetine.   Insomma, l’invasione degli ultracorpi era uno scherzo al riguardo. Credo di averne ancora nel box, e son passati più di quarant’anni.
Insomma, a me piace aprire il barattolo del caffè, per il profumo che si sprigiona. Al venerdì sera le caffettiere le preparo quasi tutte, un esercito di cinque, esclusa quella grossa grossa, la mattina del sabato è un avvicendarsi alla colazione. Ci verso l’acqua, la livello, ne esce un po’ sul piano di granito della cucina, resta invisibile, del resto essere invisibile è il suo lavoro da acqua pulita. Prendo la polvere, la sistemo nella caffettiera, livello anche quella. E’ un rito, va  seguito lentamente, con compunzione. Un po’ di polvere di caffè sfugge, cade nell’acqua, vi galleggia, in una relazione impermeabile e senza futuro. E’ un rito, ed i gesti abituali non occupano la testa,  e consentono  di pensare ad altro e restare  in silenzio, col cucchiaino che spiana le montagnette brune, e  debbo pensare tanto, no, qualcosa di meno creativo, debbo fare considerazioni e trarre conclusioni.

Tombola!

La mamma si assesta, passando dalla carrozzina alla sedia, il suo sguardo, una volta di occhi azzurrissimi, è sempre quello di una persona che sta subendo un grande torto, ed anche il labbro inferiore ha la postura da bambina imbronciata. Il grande torto che sta ricevendo è quello di avere 99 anni, e tutti che le dicono come vorrei arrivare alla sua età e lei puntualmente li sconsiglia, e suggerisce l’età giusta, 80.  E’ Pasqua, e nella casa di riposo hanno organizzato la Grande Tombola di Pasqua: premio, un uovo di Pasqua, naturalmente. Passa l’infermiera con le cartelle, e la mamma non contenta di due, ne voleva di più, però le lasciano tre pennarelli.
Credo che la tombola sia quello che più si avvicini all’emozione del gioco delle carte, nell’attuale vita di mia madre, l’attesa del numero, e potersela prendere con la sfortuna, accidenti a quell’82, che non esce mai, e sfogare sull’82 la rabbia per l’autonomia persa, e la vita che è noiosa.  Diventa ferocissima, a tombola. Abbiamo fatto tre terne, una quaterna,  una cinquina, io ormai mi vergognavo ad alzare la mano  ” Mamma dai lasciamo vincere qualcun altro!”  figuriamoci, mi guardava con dispetto ” Ma no, ma perchè, figurati” e alzava la mano lei “Silviaaaaa” .  Secondo me la Silvia faceva finta di non vederla, ma la mamma mica rinunciava.
Bottino: un portapillole di metallo con scompartino interno (senza pillole), una specie di portacenere quadrato turcheggiante lussureggiante di brillantini, che conteneva una collana di plastica azzurra, due orecchini di plastica dorata, con clip, dalla forma di confetto, due tovagliette all’americana rosa shocking, un sacchetto con coniglietto di cioccolato e ovette.
E’ arrivato mio nipote con la sua compagna, e lui ha regalato a lei la collana di plastica azzurra.
“Ecco, la cosa più bella se la son presa loro”  recriminava la mamma, “e tu sei rimasta senza!”
Ho dovuto portarmi a casa tutto quel ben di Dio, con l’ingiunzione di non regalare niente a Rocio, la signora che viene da me e va a dare una mano alla mamma. E’ di nuovo indispettita “Ma no, ma perchè li devi dare a lei? Tienili tu” La spiegazione che magari a Rocio piacevano,  non era argomentazione sufficiente…