Il mio “nascosto” Bookcity

Il pezzo che leggerò dopodomani.
Io non so niente dell’Africa in Africa. Leggo, ascolto la tv, ma non sono mie esperienze dirette, e allora l’Africa che conosco è questa, riesco a scrivere di mie sensazioni, di pensieri, di cose che vedo e mi colpiscono. Non sono una scrittrice che crea storie, io riporto. Riporto le impressioni di una persona qualunque, che non si ritiene in possesso di verità assolute.

locandina 2019 bookcity

MAMAKAR
Ascolto, il venditore di libri ha agganciato il vicino dell’ombrellone davanti.
Chiacchierano proprio. Sembra che un altro “vu’ cumprà” non si stia più facendo vedere, aveva promesso di cambiare l’orologio spacciato con complicate funzionalità, chissà se allunaggio compreso, e che invece non funzionava per niente. No, lui, il tipo non lo conosce
Affabile, il venditore chiede il nome al nipote tredicenne del vicino, il biondo stravaccato sul lettino.
”Ah, ti chiami Nicolò… come De Nicola, il vostro primo presidente. Einaudi è stato il secondo. “
Stupita, tendo un po’ di più l’orecchio.Si chiama Mamakar, viene dal Senegal – ma non è alto! I senegalesi non sono tutti alti alti? – studia storia e filosofia a Dakar, viene in Italia a fare la stagione, per guadagnare il denaro per pagarsi l’università. Vuole diventare insegnante di storia in Senegal.
“T’è capì, ministro?” il mio primo pensiero di riflesso, ascoltandolo.
“Mica vengon qui solo per fare i delinquenti, ministro. Pensa un po’, arriva col visto turistico per fare la stagione con un progetto, cioè vuole tornare, laurearsi, e restare nel suo Paese, per migliorarlo col suo lavoro. Ovvero quello che dici che gli africani dovrebbero fare invece di buttarsi sui barconi per vivere nella pacchia a sbafo in Italia”.
Forse che i nostri ragazzi non se ne vanno via da qui? Hanno poche opportunità per costruirsi una vita, e quando all’estero hanno trovato un lavoro e accumulato esperienza, hanno comunque poche opportunità se volessero tornare a casa. Invece Mamakar ora è qui, ma si è disegnato il suo futuro in Senegal, a casa sua.
Oh, il venditore dell’orologio complicato è tornato davvero, con lo strumento nuovo e questa volta funzionante.
Noto, i venditori africani in spiaggia son diminuiti, ci sono loro due e a volte una splendida donna che incede con la cesta di vestiti sulla testa, ma non sono diminuiti gli ambulanti nel complesso.
Numerosi quelli arrivati dallo Sri Lanka, o insomma da qualche zona lì, che si salutano e si riuniscono ogni tanto a scambiarsi due parole, e così vedi questi accrocchi fitti di cappelli occhiali da sole e cesti appesi a pannelli e a manici di scope.
Il venditore di cocco di norma è italiano, quello di quest’anno è molto organizzato, propone ogni giorno una maglietta diversa a tema “Cocco”.

Caldo…sta facendo molto caldo, ma sotto l’ombrellone la mente corre lo stesso, tanto lei può farlo senza sudare.

La spiaggia, la sabbia del deserto, il mare, l’acqua potabile, Greta, il cambiamento climatico.
Dicono, noi italiani – prima gli Italiani – ne risentiremo presto, saremo la prossima Africa? ci rifugeremo nel Nord Europa?.

Siamo già stati emigranti… i Terùn dal Sud al Nord, e in Germania, in Belgio, nelle Americhe, e non sempre bene accolti, a svolgere i lavori più umili e pericolosi. Perché ora abbiamo dentro tutta questa acredine? E così poca memoria?.

Dicono, tra un po’ di anni i problemi climatici dell’Africa saranno i nostri, saranno di molti popoli.
E quindi noi qui ci prepariamo, vedo, costruendo bacini nelle Dolomiti per raccogliere l’acqua piovana e innevare le piste di sci: ci estingueremo, ma lo potremo fare sciando.
La Siberia brucia, l’Amazzonia brucia, bruciava anche la Sardegna, i ghiacci si sciolgono, dicono che dal permafrost riprenderanno vita protozoi e virus sinora rimasti sconosciuti, speriamo non tutti parenti stretti dell’ Ebola.
Di fronte a tutto questo non esiste Africa, Italia e i confini, e l’Amazzonia di Bolsonaro e il muro di Trump o le smanie di Erdogan.
Il pianeta se ne frega della nostra geografia politica e dei nostri regolamenti, il mondo è uno solo, le nuvole non vanno ovunque senza passaporto?
Tutto riguarda tutti e, preciso meglio per gli individualisti: ogni cosa riguarda ognuno.
Che si voglia o no, siamo tutti dentro nella stessa catena.

Filovia

Un ragazzo di colore, ben ravviato, con giubbotto e occhiali scuri, tiene ripiegato sotto l’ascella un grosso sacchetto di carta vuoto con la scritta “aeronautica militare”.
Al telefono spiega a qualcuno: ” devi cliccare su quel coso rotondo vicino alla lucina”.
Sarà, ma mi veniva da ridere immaginandomi la scena in un film.

Grazie, amico mio

Non ho potuto chiamarti, anche se lo smartphone porta  ancora il tuo numero,  e  l’ultima telefonata prima che te ne andassi per sempre.
Forse te ne avrei scritto già ieri notte, senz’altro ti avrei chiamato oggi per raccontarti.
Mi trovavi sempre sciocca perchè al Van Ghè non volevo parlare o essere chiamata per i ringraziamenti dopo la tua presentazione degli autori, anzi, la tua regia.
Mi rimproveravi per la mancanza di autostima, di fiducia in me stessa.
Mi dicevi da sempre che scrivevo molto bene, ma non ero una scrittrice, ed ero d’accordo con te, non ho una storia dentro che pulsa.  Scrivo i miei quadretti, non saprei fare altro. Però, se li avessi raccolti in un libro, lo avresti presentato volentieri.
Mi fa sempre sorridere, rileggerti  “il 24 sera, come annunciato eoni luce or sono, io ti chiamerò al proscenio, tu avanzerai senza fare sorrisini di timidezza preventivi e successivi, prenderai l’applauso del pubblico e te ne tornerai al posto. Tu fai troppe cose perché ti s’identifichi con quel che sei, quanto dire il direttore artistico delle serate letterarie. Così ti qualificherò io, da domenica 24 in avanti ”
Ecco, ieri mi sono vinta. Ho letto in pubblico, due pezzi del mio blog, in piedi, in bella vista.
Mi sono vinta ma non abbastanza, perchè non ho avuto il coraggio, non mi sembrava mai il momento,  di dire che speravo di non fare una figuraccia perchè volevo dedicare questo momento a Giovanni Choukhadarian, l’amico che mi aveva sempre spronato ad avere fiducia in me stessa e a non stare in un angolo, l’amico che in febbraio se ne è andato via su un arcobaleno, e manca sempre tanto … ecco, Giovanni, ho provato a fare come dicevi tu.
Ero emozionata, ho letto troppo veloce, ma mi sembrava  che quello che leggevo piacesse abbastanza al pubblico. A momenti mi cadevano i fogli, mi tenevo con un dito al leggio e sentivo il leggio spostarsi e temevo che cadesse, avevo una fretta immotivata, ma nessuno mi diceva di fare in fretta se non l’emozione dentro di me.

UNA GIORNATA PARTICOLARE, che non c’entra niente col film di Scola.

Siamo partiti con mio figlio, aveva piovuto nella notte a Milano, avrebbe ripiovuto lungo la strada.
La casa ci aspetta ancora in piedi, nel suo odore di terra dell’Oltrepo, così grosso e impregnante, così diverso dall’odore della terra del Lago Maggiore, nei miei posti,  dove sa di leggero, di foglie, di funghi.  La apriamo, ma non ci fermiamo, siamo invitati a pranzo in paese.
Siamo accolti da un cancello che si apre automaticamente, ma dobbiamo fare attenzione “Titta Titta vieni qua”  una cucciola di labrador corre,  inciampa sulla  matura cagnolina  Luna, si arrotola e corre ancora con quelle lunghe gambe che le scappano da tutte le parti.
Si mangia nella taverna, ci sono sei posti apparecchiati.  Per la padrona di casa, per il suo compagno, due amici loro, noi.  E’ stato un pranzo semplice, di cose buone. Tagliolini con pomodoro a tocchi e basilico, un piattone di fette di prosciutto crudo e uno di coppa, da cui servirsi a piene mani, le conserve casalinghe di zucchine peperoncini, cipolline, e un’insalata di pomodori, vino bianco, acqua e la depravazione della Pepsi.
Sono stata bene,  è un altro vivere.
Si è parlato molto di animali, e per un po’ il pensiero delle bestie umane è stato messo  da parte.
Il padrone di Titta,  sempre propenso a ridere,  ha anche 11 gatti, tra cui quattro cuccioli persiani da collocare.
Un altro commensale, di età avanzata, fa parte di una squadra di abbattimento dei cinghiali, ma al contempo aveva anche salvato due cardellini caduti dal nido, e una volpina orfana, che ha lasciato andare perchè sarebbe stato multato come accaduto per i cardellini, che pure ha liberato appena in grado di volare.  Perchè,  una cosa che succede in ogni dove,  nei paesi ci sono sempre persone che non si fanno mai gli affari propri.
E sì, da quelle parti qualche lupo si è visto, e daini e caprioli, e sta arrivando anche qualche cervo, e ci sono anche gli istrici, non i porcospini, proprio i più grossi istrici, non ne ho mai visto uno, credo, neanche allo zoo.
La conversazione è andata sui prezzi dei tartufi, che anche lì ci sono, prevalentemente neri,  e non sono pubblicizzati come in Piemonte, e lui nella stagione giusta all’alba va con i cagnolini che ha addestrato alla ricerca. Cagnolini bianchi perchè così li vede al buio. Si addestrano facendo odorare i tartufi ma anche facendoli mangiare, mescolandoli al cibo. Poi bisogna anche insegnar loro a non mangiarli quando li trovano.
Bah, a me i tartufi non piacciono, però mi piace cercare, infatti tornando sul Trebbia avrei voluto provare a cercare l’oro… anche se non lo trovavo, sarebbe andata bene lo stesso.
Come pescare, dicevo. A me piace pescare non per prendere il pesce, ma per l’attesa e la suspence del galleggiante. Canna fissa, ovviamente.
Dai funghi alle bisce, il passo è breve.  Marco aveva dato la caccia a un biacco nero (no, la Juve non c’entra) che era entrato in casa e si era nascosto dietro un mobile, in verticale contro la parete, arrotolato come un cavatappi.  Non me lo aveva mai detto.
Invece il signore di cui sopra, sa prendere con non chalance  le vipere con un bastone  biforcuto,  fin da ragazzo, quando le vipere venivano cercate e comprate per fare il siero antivipera, e  raggranellava qualche soldo così.  Insomma, non pare più vero che in Oltrepo le vipere non ci sono.
Il pranzo è stato intercalato dall’arrivo della legna per l’inverno, scaricata nella corte, e dagli ingressi fortuiti della Titta scatenata, contenta di ritrovarci tutti lì mentre lei era sola fuori con la schiva Luna, e dagli agguati  della giocosissima Sissi, micina tigrata di sei mesi, sveltissima ad arpionare il mio dito. E’ anche arrivato portando le uova un nostro quasi vicino di casa, ha le galline, e due cavalli, e si è fermato un po’, poi pensava di avere addosso odore di cavallo ed è andato. Nessuno di noi aveva fatto facce strane.  Io più che altro sentivo odore di pollaio, lo stesso del nostro segugio quando tornava dai suoi vagabondaggi.
Nel pomeriggio, a casa con diluvio e divano.
Alla sera dovevamo incontrarci con amici in un Agriturismo, un appuntamento che rimbalzava da Pasqua:
Mentre solcavamo il mare di colline per raggiungere gli amici,  il sole tramontava in uno squarcio di nuvole, il tempo di regalarci un arcobaleno, che sembrava lì, tangibile, sbucava dalle robinie a lato della strada.  Giovanni, sei tu? Anche il giorno del funerale di Giovanni, lui ci aveva mandato l’arcobaleno, e ci siamo passati sotto con la macchina, lo si vedeva entrare nel mare.
Poi verso l’agriturismo, dietro alla macchina degli amici, su un crinale emozionante, anche un po’ da vertigini, nei punti in cui ai lati della strada  il verde sprofondava.  La speranza di vedere i cervi, i lupi, gli istrici.  No, abbiamo solo visto un cinghiale la sera tardi al ritorno, ha attraversato la provinciale sperdendosi tra le case.
La sensazione della natura che si riprende il suo spazio, a me dà gioia.  Non so bene cosa voglio…. la vita di città, al sicuro, o la vita al limitare di un bosco, senza negozi ospedali cinema dove  tutto è più complicato, soprattutto quando hai una certa età.  Ma mi sento così bene, guardando il mare, guardando le colline, parlando di animali. E’ un tentativo di fuga dalle delusioni? Un desiderio di libertà? Non so bene, so che mi piacerebbe queste cose dividerle con qualcuno, mentre qualunque cosa io pensi di fare, mi penso sola.
Mio padre, quando ero ragazzina, mi diceva che nell’adolescenza  ci si sente nè carne nè pesce. Forse questa sensazione  torna quando si invecchia, e il fisico  non segue lo spirito?
Comunque  quella sera, piacevole con gli amici, piacevole la cena, spettacolare il panorama, mi riservava una scoperta triste.
Nell’agriturismo, in una stalla, c’era qualche mucca, un vitello, un asinello, delle gabbie di conigli. Dietro queste gabbie è apparsa un’ombra, una volpe, pensavo, dall’andatura. Ma era magra, col pelo corto, mica la bella coda rossa. E’ sgusciata via tra le gabbie, e poi l’abbiamo vista fuori, sul prato, non era un gattone  nero, era proprio una volpe, marroncino sbiadito.
Abbiamo avvisato che c’era una volpe che si aggirava tra i conigli,  lo sapevano,  sono due, sono malate per quello vengono vicino. Le volpi stanno morendo tutte, hanno la rogna, la trasmettono ai cuccioli e questi muoiono presto.
Ma come si può fare, qualcuno fa qualcosa?
Esistono delle medicine da applicare, fare lavaggi velenosi per gli acari.  Come si fa con i selvatici? Anche ci fossero delle medicine per via orale, come fai a somministrarle con la regolarità che i farmaci richiedono? lasci i bocconi con la medicina, e poi?
e il contagio potrebbe propagarsi agli altri animali pelosi che vengono in contatto con loro.
Che cosa orribile… la natura è meravigliosa e anche spietata. Ma non si può non amarla.

MY NAME IS ADIL

Alcuni pensieri dal  film che ho visto ieri, qui il trailer con la splendida voce di Alessandra Ravizza, alla Biblioteca di Baggio; il regista Adil Azzab era presente alla proiezione del film, la sala era piena.
adilIl film narra la vicenda di Adil, ovvero il regista del film, rimasto in Marocco con la madre e i fratellini mentre il padre si era avventurato in Italia.  Il ragazzino è costretto dallo zio, piuttosto violento ed amante del gioco e delle scommesse, a custodire il gregge di pecore e a fare combattimenti con un coetaneo, per ottenere in premio due scatolette di tonno.
Nonostante il forte  legame affettivo con i nonni e la madre, Adil sogna di andare altrove, avendo compreso il futuro che lo attende, finite le elementari, pastore di pecore in eterno  in una terra  piana e assolata. La madre lo capisce e fa avere un messaggio al padre, che impegna i propri risparmi per far portare Adil in  Italia.
Siamo nei primi anni 2000. Il ragazzino, che  sogna di fare l’elettricista, approda a Milano, dove aiuta il padre al mercato, riesce ad avere il permesso di soggiorno, va  a scuola,  e imparando la lingua riesce anche a stringere amicizia coi compagni di scuola,  a studiare e poi lavorare come elettrotecnico.  Quando la ditta chiude, un’associazione che si occupa di aggregazione sociale lo include nei suoi programmi insegnandogli la comunicazione mediale, e il videomaking.  Adil,  diventato collaboratore volontario nella nella medesima associazione, riesce così a raccontare la sua storia in un film, con i pochi mezzi a disposizione raggranellati con un crowdfunding, e girato con la funzionalità video di una macchina fotografica  Canon.
Un fratello  impersona Adil ragazzo nel film,  gli attori sono infatti gli amici e i parenti stessi.
Agli inizi del secolo  – ora, nel 2018, possiamo scrivere così – veniva emanata la legge Bossi Fini, ma se torno indietro con la memoria, il problema immigrazione non ricordo fosse sentito come ora, o meglio non lo si sentiva nel modo esacerbato e strumentalizzato e sfruttato come ce lo fanno sentire ora. E’ di oggi l’arresto in Francia di un uomo che aiutava una coppia di immigrati a valicare il confine nella neve, lei incinta. E la morte di una gestante ammalata di tumore, bloccata alla frontiera nella neve col compagno, portata davanti a un centro di assistenza, salvato il bambino col cesareo, nato orfano di madre e ora ricoverato a Torino.  Lei si chiamava Beauty, il suo compagno si chiama Destiny.  Sì, certo, di storie così ce ne sono tante, e di miseria quotidiana, anche nel nostro paese, anche di italiani. Ma sempre miseria è.  Miseria d’animo versus miseria di fatto.
Pensavo, ascoltando Adil regista che raccontava della nascita del film, “cosa è riuscito a fare, nonostante noi” .  Il ragazzo arriva a Milano, e resta sconcertato, così tanta gente, e nessuno sembrava vederlo.
Chissà se ora, adulto, avrà modo di progredire nel suo percorso.
Uno dei punti portanti del film è il senso di estraneità… sentirsi straniero in Italia, tornare nel proprio paese per ritrovare le proprie radici, e allo stesso tempo sentirsi cambiato. Non essere nè carne nè pesce.
Dalle conversazioni con il pubblico, è emerso che la stessa sensazione la prova chi è migrato al Nord dal Sud Italia.  Forse è una cosa che tutti noi italiani dobbiamo tenere presente.
Alla domanda “ma ora che qui hai studiato,  fatto esperienze, non provi il desiderio di tornare al tuo paese ed insegnare quello che hai imparato, aiutarli ad ampliare le prospettive di futuro lì?”  una forma velata di aiutiamoli a casa loro. Adil vorrebbe che tutti potessero studiare, perchè in Marocco chi sta lontano dalle città fa solo le elementari.
Ho solo voluto appuntare alcuni pensieri, senza nè arte nè parte, al mio solito.
Anche perchè l’argomento è smisurato, soggettivo, sfaccettato, mondiale.

Lontani, per sempre

Romanzo di Stefano Cafaggi, godibilissimo,  con un ottimo ritmo e una certa suspence.
Inoltre, con un bel finale: mi è capitato spesso
41mWNiQbVuL._SX311_BO1,204,203,200_di trovarmi all’ultimo capitolo e leggere conclusioni frettolose come se fosse finito l’inchiostro o la carta, cosicchè  resta un senso di delusione, di incompletezza.
Invece qui si legge fino alla fine, con soddisfazione, e non è che mi capiti sempre.
La narrazione di un ragazzino, senza nome ma con un soprannome, Ragno, Ragnetto, Spiddeman, appena trasferito in un paese senza nome nell’estate tra la fine delle medie e l’inizio delle superiori, dove non conosce nessuno, compie la sua muta da ragazzino a ragazzo, andando incontro a esperienze che non sono da tutti, ma plausibili, tra  casolari vie poco frequentate e personaggi misteriosi nelle campagne padaned’agosto.

E l’amore guardò il tempo e rise

E l’amore guardò il tempo e rise,
perchè sapeva di non averne bisogno.
Finse di morire per un giorno,
e di rifiorire alla sera,
senza leggi da rispettare.
Si addormentò in un angolo di cuore
per un tempo che non esisteva.
Fuggì senza allontanarsi,
ritornò senza essere partito,
il tempo moriva e lui restava.
(Luigi Pirandello)

 

 

 

Dentro Caravaggio

-Oggi sono andata a vedere la mostra su Caravaggio
-E’ bella?
-E come no, ci sono i quadri di Caravaggio!
Come si potrebbe dire che non è interessante? sono rimasta affascinata dalla sua pittura secoli fa, in San Luigi dei Francesi, a Roma.. mi pare così speciale, così  diverso da tutti gli altri pittori, per la forza e l’intensità delle sue figure, la sua luce, i dettagli.
Giustamente, la mostra si intitola Dentro Caravaggio, e tramite gli esami radiografici delle sue opere,  messi a disposizione del pubblico nei tratti essenziali, possiamo scoprire parte della tecnica pittorica, sono stati scoperti inaspettati tratti di matita, incisioni, angeli spostati, mani ripensate, quadri dipinti sopra ad altri quadri, descritti i colori scelti per la preparazione delle tele.
Nel mio piccolo, sono perplessa circa l’attribuzione a Caravaggio del San Giovanni Battista custodito a Roma, mi sembra piuttosto spento, privo della luce lucente e della possenza caravaggesca… non ho altri argomenti a supporto della mia tesi, se non che, entrando nella stanza della mostra, subito ho avuto l’impressione “ma quello non è Caravaggio”.
Ci parla del personaggio Caravaggio, ombroso, impetuoso, direi, degli ambienti che amava frequentare, delle sue risse, dei suoi protettori…
Poco, quasi niente, circa la collocazione dell’opera pittorica di Caravaggio nel suo tempo, e insomma, questa parte mi mancava un po’, per sentire completo il discorso su Caravaggio.
Un collegamento che la professoressa di storia dell’Arte ci aveva insegnato a cercare.

Cose che hai capito quando era troppo tardi…
alla mattina Maria Luisa Gengaro arrivava sulla sua bicicletta pieghevole grigia, col suo foulard che non toglieva mai (c’era chi diceva fosse senza capelli perchè ferita da partigiana, e può essere, è sepolta a Premosello Chiovenda, nell’Ossolano), sollevava la bicicletta e la portava su per la scalinata  del liceo Beccaria.
Non ci interrogava,  valutava gli interventi che facevamo, per me molto schiva era una cosa terribile. Presi un 7 balbettando “sono tutti  templi” a proposito dell’arte greca,  alla domanda  su cosa vedevamo sfogliando il libro.
Non ricordo come sono sopravvissuta gli anni successivi.
Anni dopo, mi sono resa conto della sua grandezza, e avrei voluto averlo capito prima per goderne di più.
Che poi non mi sono mai capacitata che al liceo classico la storia dell’arte  si studi solo nel triennio, quando è una materia che in Italia dovrebbero propinarci quanto la lingua e la matematica. Anche musica, è sempre lasciata nell’angolo, perchè?

 

Qual è il senso?

E’ un periodo di insoddisfazione, che non mi sento di definire come una soglia di depressione, perchè non sono passiva,  arresa, continuo anzi a guardarmi in giro, pensare, arruffarmi in cerca di soluzioni e strade
Il fatto è, che da quando ho smesso di lavorare, la casa mi va stretta.
Non amo  le faccende domestiche, non mi dispiacciono, preferisco però quelle dove si può esercitare un po’ di creatività,  come cucinare, riordinare,   mi piacevano ricamo uncinetto ferri… mi piacciono ancora, ma non ci provo neanche, fino a che non avrò ripassato tutta casa per svuotarla di cose, è grandina ma piena di cose, e fino a che avrò urgenze che mi chiamano fuori; per fortuna,  non  mi annoio mai, e una vita anche intellettuale non mi manca.
La casa mi  va  stretta perchè vorrei avere un panorama, magari d’acqua, meglio di tutto il mare, o almeno uno stagno con una famiglia di paperelle.. un panorama che si muova. Vorrei avere un fazzoletto di giardino, non troppo grande, invecchio, non ringiovanisco, non mi vedo a dissodare zolle, ma a tagliare l’erba sì,  seminare,  togliere qualche erbaccia, seguire la crescita delle piante, lo sbocciare dei fiori, la farfalla, e Zampi e Frecciarossa felici che puntano lucertole e uccellini, senza acchiapparli,  e il Boris che invecchia al sole roteando le orecchie. Magari far colazione fuori invece che in cucina. Mi andrebbe bene anche una terrazza, una veranda, non il piccolo balconcino di cucina, non la casa in oltrepo piena di crepe, che è là, ma io vivo qua, non il parchetto pubblico sotto casa.
Non so bene dove lo voglio, questo. Vorrei stare al mare, ma il nucleo della famiglia sembra aver bisogno che stia qua, e poi là, sarei troppo sola forse..invecchio, non ringiovanisco.
Ho bisogno un po’ di vita naturale, fatta di cose semplici, non il naturale dei preparati che vendono in erboristeria, di prodotti biologici.
Guardo la vita come si vive adesso,  migranti migranti deficit tasse bilanci clima animali in estinzione incendi siccità, mi chiedo, ma era quello che voleva Dio quando ci ha creato? non so,  non credo che ci volesse tutti all’inferno.
Quale è il senso? la terra si evolve, le specie  scompaiono, gli uomini infestano,  noi da agricoltori pastori ci stiamo robotizzando, sempre più persone pare scelgano di inserirsi microchip, tra un po’ sarà una moda come tatuarsi, certo scelgo di restare s-tatuata e s-microchippata, resiste il più  forte, il diritto a esistere e respirare sta diventando un privilegio…
che sia una grande gara, l’ultimo che rimane  su una briciola di pianeta Terra galleggiante nello spazio – uomo o topo che sia –  ha vinto? vinto cosa? forse, lo attendono  a giocare su un altro pianeta per le finali?

 

Tempo di Libri, Milano 2017

Premetto che non sono un’addetta ai lavori, sono solo una che bazzica.
Lascio stare tutte le questioni economiche, i perchè della nascita dell’esposizione a Milano, non li conosco approfonditamente, mi interessano poco, son giochi sopra le nostre teste.
Mi interessa cosa trovano le persone, i potenziali lettori, che vanno a queste manifestazioni.
In attesa di tornare al Salone di Torino, che sarà dal 18 al 22 maggio 2017, per vedere cosa ne sarà –  da un’occhiata al sito sembra lì bello e robusto – scrivo qualcosa sull’evento  di Milano, il mio consueto mucchietto di pensieri.
Il confronto è inevitabile, dovuto anche alle macroscopiche somiglianze.
Un primo pensiero è che occorre valutare Milano (li  chiamerò uno Milano e l’altro Torino, per brevità) con una certa oggettività, non con dispetto,  gelosia,  prevenzione, perchè il nuovo non lo conosciamo e siamo affezionati al vecchio: questo atteggiamento non giova al libro e alla cultura… vediamola come un’occasione in più.
Consideriamo il periodo… non è certo favorevole scegliere un ponte vacanziero, un solo mese distante da  Torino… ma in  marzo c’è Book Pride, e in novembre c’è Book City, a settembre il festival della Letteratura di Mantova, e mettiamoci Roma nel periodo dell’Immacolata.
Il logo e il sito di Torino sono un passo avanti rispetto Milano: il programma online era inguardabile, con i riquadri che non contenevano i nomi completi degli eventi, e bisognava aprirli per leggerli,  e pochi riquadri per pagina… una consultazione, online, che richiedeva  un sacco di tempo, tutt’altro che visivo.
E anche non mi pare si sia martellato abbastanza, per fare sapere della novità milanese.
Anche nel metrò non  c’erano indicazioni palesi per il libro, per chi arrivava per la prima volta, come la sottoscritta.
Nei padiglioni la numerazione degli stand non so bene che criterio seguisse, a me sembra che siano riusciti a rendere inutili lettere e numeri, non devono aver mai giocato a battaglia navale:  perchè chiamarlo G02 se non lo trovi tra G01 e G03, anzi si passa dal G2 al G9?   neanche si poteva dire che i pari sono in un padiglione e i dispari in un altro.
Il nome, Tempo di Libri, non è un granchè, e se per Torino c’era il Fuori Salone, o Salone Off,  Fuori tempo di Libri è un filo penoso, anche Tempo di libri off non suona meglio.
Occorre dire che è difficile trovare una qualche denominazione  che riguardi il libro e non sia stata usata…  LiveBook? EveryBook?per state in assonanza con Book City e BookPride.
I due saloni si assomigliano parecchio, per quando riguarda gli stand e le sale per gli eventi: a parte il fortilizio del Libraccio, e alcune editrici grandi che avevano dato una parvenza di arredo al loro spazio, i piccoli, con minori mezzi economici, cosa possono fare se non impilare i loro libri sul banco?  Una cosa, a Milano rispetto a Torino i nomi degli editori non erano tutti visibilissimi.
In ogni caso penso che i libri radunati in uno spazio unico siano meglio usufruibili da famiglie con membri di ogni età, ci si muovono  agevolmente carrozzine passeggini e carrozzelle e stampelle.
Presentazioni e conferenze ce ne sono per tutti i gusti.
Mentre per Book City devi correre per tutta la città, bella come idea di distribuzione capillare della cultura, magari di fianco a casa tua,  ma non bisogna essere pigri, e bisogna scegliere bene,  che se poi scopri che non ti piace…gambe in spalla e corri da un’altra parte riattraversando la città, che non è piccola, mica è Mantova.
Quanto alla raggiungibilità, sia Milano che Torino sono servite da metropolitana e da posteggio, c’è lo sportello bancario, a Milano ho notato in più una edicola tabacchi e una  defibrillatore… oddio, magari c’erano  anche a Torino, e non li ho visti.
Affluenza… Torino 2016, ci sono tornata dopo un paio di anni di assenza, era parecchio dimagrita,  come stand, ma l’affluenza era comunque maggiore rispetto questa prima edizione milanese. Ma appunto per Milano è la prima… spero non l’ultima, come spero di continuare ad andare a Torino col mio trenino, e vedere gli aironi nelle risaie all’andata, e non vedere più niente al ritorno, per la stanchezza.

 

 

Accadde tre anni fa

Ieri sera, tornando a casa, c’erano sull’autobus due anziani che parlavano tra loro:  uno scende, ne prendo il posto.
Ho così davanti a me una signora coi capelli bianchi, che mi dice ” Che giro dell’oca fa la 61″. Io dico, “ma no, perchè”, e lei mi dice di venire dal capolinea.
“effettivamente allora sì, è una linea lunghissima” rispondo.
Mi dice che era stata a tenere la nipotina, ma la figlia non capisce il suo disagio ad attraversare tutta Milano per essere lì in tempo perchè vada in ufficio. Sarebbe arrivata ora a casa (erano le 20 passate) e certo non cucinava, è vedova. Poi mi dice
“Lei è stanca. Lo vedo, ero dottoressa, sa? Ma non stanca di oggi, è stanca da un po’.”
credo di agitare le sopracciglia
” Mi raccomando, abbia cura di sè, perchè poi quando ha bisogno non c’è mai nessuno, non c’è figlio che tenga.”

LETTERE DA BERLINO

Sottotitolo: Quando Twitter non esisteva ancora.
Otto e Anna Quangel, berlinesi,  hanno perso il figlio sul fronte franco-tedesco;  nel padre , meccanico, matura l’idea di spargere granellini di sabbia, ma tanti, per far fermare la macchina tritatutto del nazismo (tritatutto l’ho aggiunto io).
Una cosa che ai tempi di twitter sembra una bazzecola – no, non penso sia una bazzecola mandare messaggi dai paesi dove la libertà non abita più – bazzecola perchè per la maggioranza di noi è un gesto familiare quotidiano che si fa senza pensarci troppo su.
Non ho letto il libro di Hans Fallada da cui è stato tratto, Ognuno muore solo – di Fallada lessi da bambina il romanzo Fridolino tasso birichino, lo lessi rilessi e lessi ancora, tanto mi piaceva  per cui non so dire quanto il film segua il romanzo, che comunque è stato ispirato dalla storia dei coniugi Otto e Elise Hampel.
I granellini di sabbia sono cartoline, accurate come piccoli capolavori,  dove marito e moglie riportano brutali crude verità sul nazismo, e che poi rischiosamente disseminano nei luoghi più frequentati della città, perchè vengano raccolte e lette, perchè  sveglino le coscienze dei concittadini narcotizzate dalla paura.  Solo,  la maggioranza dei biglietti viene raccolto da persone  terrorizzate dalla sola vista dello scritto,  e da questi consegnati alla polizia hitleriana, che ovviamente indaga e noi,  sostenuti da una consona colonna sonora, si fa il tifo perchè i coniugi non vengano scoperti.
E’ sempre opportuno non smettere di raccontare quel buio alle nuove generazioni, ma mi chiedevo cosa avesse da offrire l’ennesimo film sul periodo nazista,  e credo sia il quotidiano dei cittadini sotto il nazismo.  La vecchia signora Rosenthal rifugiatasi in soffitto e foraggiata dalla postina, il giudice Fromm che si offre di nasconderla, il ladro sciacallo, la fila di donne ebree costrette a raccogliere mattoni in mezzo a delle macerie,  i lavoratori che devono incrementare la produzione per obbedire a Hitler, chi si mutila le mani per non partire militare, chi si terrorizza per aver solo toccato e letto le cartoline dei Quangel, l’investigatore in gamba che lotta col suo senso dell’onore e la sua coscienza.
Comune denominatore la paura.
Ripenso all’altro film visto recentemente sull’argomento, Frantz, collocato invece alla fine della guerra, dove i genitori apparivano invece  più rassegnati, in attesa di qualcosa, di qualche segnale che non poteva più arrivare.
La cosa più bella qui è l’amore della coppia protagonista, un amore intenso e di poche parole, timido e dolce, che arriva e commuove.
Non conosco il regista Vincent Perez, non ricordo  Brendan Gleeson che avrei già visto in Suffragette (era anche  nella serie di Harry Potter) e qui bravissimo, non ricordo in altri film anche se ne ha girati parecchi di rilievo che non ho visto l’investigatore Daniel Bruhl, ma ricordavo  benissimo la grande Emma Thompson, già amata in Casa Howard, Quel che resta del giorno, Ragione e sentimento.
Curiosamente, se penso a Jane Austen, l’inglesità che amo, la vedo con i tratti di Emma Thompson, anche se in realtà la scrittrice era tutta diversa.

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FILOVIA 90-91

Alla fermata mi sono seduta sulla panca tra un giovane di colore e una coppia di anziani invece di incolore.
Ha suonato un cellulare, non era il mio, il ragazzo, pulito e ben vestito, uno studente, risponde al suo imponente Samsung .
L’anziano scuotendo il capo ha bisbigliato alla moglie: “Guarda che telefono che ha!! …visto?”
Eccerto! Sono i nostri 35 euri che lo mantengono così bene. Sono certa che hanno  pensato quello, e nero è nero,  quel lavavetri con la t-short rigata che stava facendo la gimcana tra le macchine della circonvallazione, era evidente che dei 35 euri se ne faceva un baffo, quello no, non lo guardavano.
Sono poi salita sull’autobus, una signora col capo coperto, musulmana direi, in buon italiano mi ha indicato un posto a sedere, ho ringraziato, sto su poco, sto in piedi.
L’ho poi sentita, alle mie spalle, parlare con qualcuno… o da sola, non so. “Cose da pazzi. Ci sono i posti per gli invalidi e quel ragazzo sta seduto,  non si muove, che gente, che mondo,  non si capisce più niente”
L’ho vista andare dal ragazzo di incolore, farlo alzare, e far sedere una signora di incolore con le stampelle.
Poi, poi basta, sono scesa.

CAFE’ SOCIETY pensierini sul film

L’ennesimo film di Allen, detto senza quel senso di noia  spesso incluso in  questo aggettivo, ennesimo.  Ne ha fatti davvero tanti, e debbo dire che non troppi sono indimenticabili,  o mi hanno lasciata altra traccia oltre la piacevole visione e l’ascolto delle inconfondibili colonne 21c20fb88a238353c939cb3897590c2asonore. Cioè, film come Provaci ancora Sam, Prendi i soldi e scappa, per dirne solo due,  sono ormai storici, imperdibili, dubito che  di questa sua ultima generazione di film alcuni lo diventino.
Cafè Society per me  esce un po’ da questo filone, vi ho ritrovato un po’ della passata verve caricaturale, e mi ha fatto  molto sorridere.
La vicenda non ha un vero inizio e una fine, la vita scorre su un nastro, abbiamo visto al cinema lo scorrere di una parte di questo nastro… le vite delle persone che abbiamo seguito per un po’, continuavano, solo, siamo usciti dal cinema.
Come tanti film di Allen, l’amore fa da padrone, l’amore con le sue assurdità, che  scherzi ci  combina.
Anche questo film, come in quello visto la settimana scorsa, Frantz, è come diviso in due “vite”, qui Los Angeles e New York.
Il film è divertente,  gli attori giusti, la musica straripante, la fotografia bellissima – la prima inquadratura della piscina mi ha ricordato le luci di Hopper – le vicende non coinvolgono visceralmente, cioè, così devono essere le cose, anche l’amore è così che funziona, i gangster fanno così, nei night la gente nel 1930 era così…e tu guardi lo spettacolo.  Così si viveva a Los Angeles e a New York, questo succedeva.
Cioè, non ti asciughi  lacrime per l’amore deluso, così doveva andare… forse sono stata una spettatrice un filino cinica,  ma molto molto soddisfatta.

FRANTZ

frantz-mit-pierre-nineyCitandolo ad un amico, da poco uscita dal cinema, ho bollato questo film come molto lento e mediocre.  Ripensandoci, lento è lento, ma non è così banale.
Non intendo accennare alla trama,  perchè l’aspettativa è necessaria al film e non voglio rovinarne la visione.

Non conoscevo nessuno degli attori del cast, nemmeno  la luminosa Paula Beer, la protagonista Anna, che ha vinto il premio Mastroianni alla 73ma Mostra di Venezia,  nè Pierre Niney, il coprotagonista Adrien, dai dilaganti padiglioni auricolari, dai  tratti che ben si adattano alla fragilità psichica del personaggio che interpreta. Il film è girato in bianco e nero, salvo i momenti dei ricordi dei  sogni e dei racconti, immagino sia il contrasto con la realtà non troppo allegra dell’immediato dopoguerra.  Una cosa curiosa: ripensando ad alcune scene, mi chiedo, era in bianco e nero o a colori? Tipo le ultime inquadrature, per me doveva essere a colori, la realtà non più grigia perchè la vita riprende, ma non lo so, forse era in bianco e nero:
La fotografia è ottima, a causa di tale Pascal Marti, a me sconosciuto (e scopro sul web che, col suo zampino,  avevo visto secoli or sono Le fate ignoranti)  come mi è sconosciuto l’autore della colonna sonora, Philippe Rombi (con lui avevo visto Nella Casa, sempre di Ozon): in alcuni film (tra cui questo) non mi accorgo della colonna sonora, mentre in altri  la distinguo, come nei film di Allen, per esempio, che spesso introduce motivi già noti, li riconosco. Vabbè, Barry Lindon, Lawrence d’Arabia, Giù la testa, erano musicone.Non so dire se sia un  demerito del musicista o un merito:  non la distinguo semplicemente perchè è  ben amalgamata con il film, o  sono concentratissima sulla vicenda, ovvero il film mi ha preso, nel suo insieme, con buona soddisfazione del regista Francois Ozon e i suoi collaboratori.
D’altra parte, quando scrivo di un film,  mi piace annotare le mie impressioni di spettatrice qualunque, non da professionista, ce ne sono già tanti più preparati di me, per farlo:
Correggo, meglio: quando scrivo, in generale, che sia di un film o di altro.
Non penso di possedere la Conoscenza, e l’Infallibilità.
Dicevo, questo film non è poi una così banale storia d’amore,  porta a riflettere sulla menzogna e sulla verità, l’amore semplice e l’amore complesso, la fiducia ed il perdono.
Come sembri a volte  inutile la verità,  addirittura importuna, quando vogliamo imporla ad altri per far stare bene noi stessi, anche se non ci è richiesta..anzi, le menzogne fanno stare così bene, perchè ferire, quanto siamo egoisti, per sottrarre momenti di vita a colori agli altri?
Il perdono anche, è una faccenda complicata, bisogna stabilire una graduatoria dei nostri valori, quali siano ovviabili e quali no, un subbuglio dentro di noi, quindi.
Nota a margine, la vicenda si svolge nel 1919, e nel paese tedesco dove arriva,  Adrien è malvisto in quanto francese,  i francesi sono gli  assassini dei giovani morti al fronte…questo nazionalismo, questa diffidenza a guerra finita.  tu sei francese, io tedesco, abituata all’idea di Europa, fa un po’ effetto, ma viene il pensiero: ci torneremo? visto che anche i muri, pare,  “a volte ritornano”.