(Un racconto che avevo pubblicato sul blog nel 2008 ma non ritrovo qui in WP)
La donna stende sulla riva del mare il telo di spugna con i colori del sole e vi si adagia, sdraiandosi sul ventre.
Le onde sfiorano le punte dei piedi, i ciottoli scolpiscono la pelle attraverso l’asciugamano, il viso appoggiato alle braccia allacciate: finalmente il sole, il salato, un sospiro di sollievo, gli occhi chiusi.
Dopo il primo momento di godimento, in fondo è un po’ noioso star lì così. Appoggiata la testa al pugno, cincischia nella sabbia ghiaiosa, scava un po’. Qualcosa di liscio…una biglia, di quelle di vetro, con il dentro giallo.
Sotto i pini marittimi nella sabbia riportata, tre ragazzini stanno costruendo una pista per le biglie.
Hanno il loro daffare. Il fratellino minore di uno dei tre fa apposta a camminarci dentro.
“Mammmaaaaaaa” si lamenta il maggiore.“Guarda Enrico cosa ci fa!”
“Enrico, lascia stare Filippo, vieni qui a fare le formine con la mamma.”
Filippo è biondissimo e parla con la erre molto pronunciata.
Una bambina appare accanto ai tre, ha il costume intero rosso e due occhi azzurrissimi.
“Posso giocare anch’io?”
I tre si guardano perplessi, una femmina.
“Ma tu non hai le biglie”
“Si che ce le ho, ne ho tante.”
La bambina scappa via e torna con un sacchetto colorato.
E i ragazzini con un cenno di intesa:
“Sai giocare, vero?”
“Certo, e so fare anche le gallerie “
“Come ti chiami?”
“Elisabetta”
Elisabetta ci sa fare. Una bella impastata alla sabbia bagnata nel secchiello che capovolge e sfila, e pian piano con le dita inizia a scavare le aperture della galleria, una di qua e una di là, delicatamente ne liscia le pareti finchè le due mani si incontrano.
“Visto? Prova a tirarci una biglia”
“Però sei brava!” dice Filippo.
I ragazzi hanno un’idea, far girare la pista in modo che ci sia anche una sopraelevata che passa sopra la montagna.
“Ma il rettilineo è troppo lungo, si va fuori!”
“Qui c’è la curva parabolica”
Le mamme chiamano, bisogna andare a casa. Quando torneranno al pomeriggio, della pista sarà rimasto poco, di sicuro qualcuno con noncuranza ci avrà camminato dentro, e il sole avrà sgretolato la galleria.
La donna riapre gli occhi, poco più avanti di lei un uomo, dal viso un po’ allungato e dai capelli che sembrano precocemente sbiancati, chiama un ragazzino.
“Edoardo, forza, vieni ad asciugarti”
La sua erre pronunciata fa effetto in un adulto: il papà? il nonno?
Edoardo… che nome da dare a un bambino. Come fai con uno appena nato, piccino piccino, a guardarlo e dire: lo chiamerò Edoardo, è roboante, sembra un ringhio, più che un nome.
La donna si guarda le mani. Adora le sue mani abbronzate, lo smalto trasparente con riflessi madreperlati appena accennati. Sfiora sull’anulare sinistro un segno circolare e pallido, un solco lasciato da anni di pressione, un solco coi bordi induriti. Chissà in quanto tempo sarebbe andato via. Pensò a se stessa ed al dito, destinati alla stessa attesa.
Elisabetta cammina col retino lungo il pontile affollato di sdraio di ombrelloni scrutando l’acqua.
Nei cespugli di alghe cresciuti sulla parete del molo si nascondono i gamberetti trasparenti, a volte perfino i pesci ago.
Sogna di catturare un cavalluccio marino, ma non ne passano mai.
Dalle crepe del muro si affaccia qualche chela di granchio, ogni tanto un pesciolino solitario, lungo un paio di centimetri, passa scodinzolando sul pelo dell’acqua.
Una volta si era spaventata un po’ perché camminando sotto il pontile, nella penombra, aveva visto nuotare una specie di anguilla che era riuscita a catturare, ma un pezzo di coda era rimasto fuori dal retino e si era liberata.
I gamberetti erano i più facili, bastava passare la rete sulle alghe e qualcuno restava sempre dentro.
I pesci ago erano tutt’altra faccenda, erano sottili e agitati, bisognava essere veloci a passare dal retino al secchiello, un po’ come per i pesciolini.
I granchi invece non le piacevano, magari pinzavano, mentre i paguri no, erano timidi, si nascondevano subito, funzionavano proprio come le chiocciole. Però per prenderli bisognava andare verso riva, camminavano per terra, sott’acqua, ma per terra.
Un bambino le chiede se può provare a pescare, ed Elisabetta acconsente porgendogli il retino.
“Però solo cinque minuti.”
Ma è antipatico e dispettoso, non glielo vuole più ridare, e non è neanche capace di prendere niente, li spaventa e basta.
Elisabetta è irritata, e non sa più che fare.
“Adesso vado a chiamare il bagnino”
“E io gli dico che il retino è mio”, dice l’altro.
Con i piedi nudi sul cemento arriva Filippo.
“Filippo, quello non mi ridà il retino”
“Perché non le ridai il retino?” Filippo si para davanti al prepotente.
“Ma glielo ho detto, ancora due minuti e glielo rendo”.
Elisabetta ora è felice, sta pescando con Filippo, fanno tre tentativi per uno.
Non le importa se non si sta prendendo niente, ma almeno si va d’accordo.
“Sai che domani parto?” dice lui
“Ma dove abiti? Mi dai il tuo indirizzo che ti scrivo?
“Va bene, ma a me non piace scrivere.
“A me si… ti scrivo io.
Elisabetta corre in cabina a riporre il pezzetto di carta con l’indirizzo di Filippo. Lo legge, lo rilegge e lo bacia:
“Io da grande sposerò Filippo!”
Non aveva sposato Filippo.
Poi, aveva avuto una storia.
E poi un’altra.
Aveva continuato a prestare il retino.
E a dire “scrivo io”.
Ora invece vuole solo che il sole faccia sparire il solco lasciato dall’anello.
Vede due piedini fermi accanto a lei, alza il viso.
“Edoardo, ho sentito che ti chiami Edoardo, la vuoi tu questa biglia? L’ho trovata adesso qui, in riva al mare”.