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Qualche pensiero dopo L’Avaro.

Quand’ero ragazza l’andare a teatro era un avvenimento,  non era  cosa che si potesse improvvisare, o si potesse andare vestiti come capita: ai tempi erano i grandi teatri, il Manzoni, il Nazionale, il Piccolo… perfino la Boheme alla Scala, non avevo assolutamente idea che ne potessero esistere di piccoli, piccoli davvero,  o piccole compagnie, nè mi sfiorava il pensiero che gli Strehler non nascessero già Strehler,  e gli autori non fossero Brecht, Shakespeare, o Goldoni.
Era comunque un’emozione speciale.
In ufficio un giorno arrivò Silvio, un collega con cui feci buona amicizia, diverso dal bancario tipo – e quando mai non andavo d’accordo con le persone più bizzose?  Lo accompagnai un pomeriggio dopo l’ufficio a iscriversi al corso di mimo di Quelli di Grock, all’epoca erano in via de Togni, a Milano, a un passo da casa dei miei zii.  Un periodo di prova di tre mesi,  un piccolo esame per decidere se continuare o no.  insomma, Silvio riuscì a convincermi ad iscrivermi: mi sentivo già allora incapace di stare in pubblico, il fatto che i mimi per lo meno stessero zitti mi era sembrato rassicurante.   Ma non era cosa per me, mi sentivo strana, e inadatta: una ragazza che già si sentiva strana nell’atteggiamento necessario per fumare una Muratti, figuriamoci a far finta di tirare funi e cose così.

C’è da dire che continuai a cercare il teatro, come spettatrice, fino a quando diventai madre, quando cioè verificai sul campo l’efficacia delle leggi di Murphy:  qualunque cosa tu organizzi prima, e soprattutto se ti vincoli con una prenotazione, ecco, per quel giorno o sera che sia,  i tuoi figli hanno, minimo, o l’otite o l’acetone.
Ora, quasi vecchietta ma non ancora pensionanda,  mi ritrovo a dare una mano con incombenze varie  in un’associazione e in uno spazio dove si respira teatro, teatro ed espressione artistica, e penso che non vorrei  occuparmi d’altro. Vorrei, ma non posso, non posso ancora, non posso fare a meno del lavoro nè di  continuare a sperare che il lavoro non possa fare a meno di me.
Sto imparando a conoscere questo mondo, anzi, universo,  e il mio sguardo ora è molto cambiato,  è mutato in mezzo  a visi,  persone,  idee,  ascolti.
A riprova della ciclicità della vita,  oggi sono andata a vedere uno spettacolo al teatro LeonardoL’ Avaro di Moliere, di Quelli di Grock (ehilà, nel 2014 quarant’anni di vita della compagnia!)  un classico rivisitato, nel quale si mescolava la commedia  e la vita degli attori: se non avessi letto della commedia sul sito del teatro, non avrei saputo  che si trattava della commistione con un’altra opera di Moliere, meno nota, L’improvvisazione di Versailles, un’idea  allegra e ben venuta.
La vicenda credo sia nota al mondo, e non sto a raccontarla… guardavo lo spettacolo e volevo cogliere cosa mi piaceva tanto del teatro.
Una cosa l’hanno detta gli attori alla fine dello spettacolo. “Accade tutto qui”.
Infatti.  Tutto si svolge sotto ai tuoi occhi. Un po’ come i giochi dei bambini, “facciamo che questo è un castello, tu sei il coccodrillo ed io il cavaliere”…  sineddoche, simboli. Una poltrona e un tavolino sono un salotto, e non ti accorgi che non ha le finestre, non ci sono ma è come le vedessi.  Sei attivo, completi le parti che mancano,  e parimenti ridi per cose per cui, a freddo, probabilmente non rideresti, rideresti solo per compiacere  chi le racconta.  Qui… allora, scatta un legame con l’attore, direi.   Parlo del ridere perchè quella di oggi era una commedia.
E poi resto affascinata dai movimenti, che sono un linguaggio ulteriore, i linguaggi sono costituiti da simboli, segni, no?  Movimenti che son spesso come una danza, come una ginnastica, appunto,  artistica.
E infine i costumi. Camiciola beige, culotte a righe, e sono i guitti, gli inservienti. Con un cappello diverso sei cuoco o cocchiere.   Con un giacchino di velluto diventi il segretario, con un giacchino dorato il figlio dell’avaro, con una gonna lunga e una cuffia la modesta Mariana, con un cappello vistoso e due gote rosse  la combinatrice di matrimoni Frosina.
Credo sia questa magia qui che mi piace tanto, questa alchimia così semplice e vitale.

Live after Live for Van Ghè

The show must go on. “ho dimenticato il plettro, tu ne hai uno? ” no non fumo e non suono la chitarra  “quando arrivi fammi uno squillo” , “sei lì?  chiedi al bar di fianco se ci possono dare del ghiaccio, solo se possono, poi arriviamo noi” “sì possono” “siamo in ritardissimo, riesci a fare andare la lavapiatti per spolverare i bicchieri?” No, non riuscivo, tasto “eco”, manopola, ma “on”? La manopola non faceva scattare nulla, il contatore era sul rosso, le spine erano dentro…  Un pensiero, all’inizio le poesie,  le poesie recitate su rumore di lavapiatti dietro il sipario,  siamo troppo avanti qui al Van Ghè… Per fortuna l’intervento del primo uomo arrivato  – una ragazza pisolava sul soppalco, si era svegliata, ma non avevamo risolto-  schiaccia il tasto giusto, di fianco a quello “eco”. Poi arrivano gli strumenti… tutto pieno di strumenti. Laura si allunga sul trabattello a orientare le luci, i leggii sbocciano come fiori in primavera, si allungano i gambi. Perfetto, siamo pronti, peccato che le cibarie son bloccate in tangenziale. Comincia ad arrivare gente, e poi ancora gente, tutti che si salutano, si riconoscono, si abbracciano … ma ci guardo:  siamo tutti noi, ma dico, uno di pubblico, uno? Arrivano le cibarie, e il buon vino, e il registratore di cassa a riempire la tavola decorata con fiori, origami colorati creati dalla ragazza che non pisolava più. E del meccanismo dei  buoni e tagliandini, si capisce nulla, è la prima volta che proviamo a far così per le consumazioni. La scaletta, il mio memo degli artisti scritto su un pezzo di carta, poco più che un francobollo, tutta rigirata che nessuno ci capiva più niente.
Ma alla fine ci siamo stati tutti, e il pubblico, e il violoncello, e l’insolito piattino di taleggio e cachi della Divinacomida, e grazie alla poesia di Francesca Genti,  Manuela Dago e Paolo Gentiluomo, a Roberto Deangelis, a Patrizio Luigi Belloli, alla recitazione di Camilla Barbarito   e di Pasquale Conti, alla musica di Giangilberto Monti, Alessio Lega, Balen’ Arrubia, Matteo Passante, Cesare Livrizzi, agli accompagnamenti di Fabio Marconi e Guido Baldoni, e il gruppo Monteforte, Tripodi, Viganò,  Minguzzi sempre disponibile a coccolarci  mirabilmente con le loro note. Ma grazie davvero!

Verso il Carroponte

Laura passa a prendermi sotto casa, l’aspetto al semaforo, così salto su e via, verso il Carroponte, dove Guido Catalano declamerà poesie – o farà il cabarettista, a seconda che lo ascolti un cabarettista, o un poeta.
Come decido che è meglio aspettarla dall’altro lato del semaforo, Laura arriva e si ferma giusto dov’ero due minuti prima, si ferma anche perchè c’è il semaforo rosso, e questa è già una buona cosa che non è detto si ripeterà sempre. La vedo, ma lei agita le mani e spiaccica i palmi contro il vetro,  le faccio un segno, riattraverso, la raggiungo, mi siedo in macchina  e lei mi dice ridendo: “ti stavo facendo segno di aspettarmi l! “…” e io ho capito di venire lì, vedevo segni strani”  Il finestrino è completamente giù, no, non mi dà fastidio, solo che Laura mi caccia in mano un navigatore, che non so come riesco a far sì che prediliga la direzione Sesto S.Giovanni, probabilmente era già impostata,dall’ultimo utilizzo, invece dei WXZ che mi scappavano digitati.  L’aggeggio parla, ma mica si sente molto quello che dice coi finestrini aperti, e così comincia il viaggio, con me che faccio la ripetitrice  del navigatore, ci dice sempre dove andare, ma tante volte ci sembra che sbagli, e allora facciamo qualche altra strada, in conflitto  con lo strumento, che non si arrabbia mai. E’ incredibile! Siamo arrivate! “Il Carroponte,  lo vedi? ” Mi dice Laura. Vedo infatti una strisciolina di rosso dietro  a delle costruzioni. Postaggiata l’auto, ci entriamo, ci sono delle aiuole e queste gigantesche impalcature, nel mio immaginario carroponte mi faceva pensare a una specie di nave petroliera, ed invece dicasi carroponte un argano installato su un carrello o un paranco, ed un ponte costituito da una trave,  i cui usi più comuni .sono all’interno delle fabbriche e dei magazzini per il trasferimento di semilavorati e di prodotti finiti tra un reparto e l’altro o verso l’area di carico e scarico; vi sono anche carriponte destinati all’uso siderurgico con funzioni di parco rottami, carroponte da carica o per movimentazione billette: così in sintesi da  Wikipedia.   Lì effettivamente c’era la Breda. Un attimo di commemorazione compunta. Gli operai, la fabbrica, le considerazioni sull’adesso.C’è una prima parte coperta, escono voci e musica, ma costeggiando la costruzione color infuocato, si arriva al prato, a un gazebo dove si sta esibendo Andrea Cola, e alla base di un pilone è seduto solitario il Poeta, con fogli bianchi tra le mani, che aspetta le ore 22.00, che sono anche passate. Il prato è occupato da tavolini e da divanetti fatti con  pallets, e assi per schienali.  Non ce ne è uno libero.  Laura segnala la panca lontana, occupata da un solo individuo. Che però si alza. La panca è libera! con passo felpato e velocissimo ce ne appropriamo.  La spostiamo in centro, sul  fondo. No, meglio che andiamo un po’ più avanti.
Ci sediamo. No, un po’ più a destra adesso. Ora c’è Catalano nel gazebo, implora che la gente vada più vicino al palco, obbediscono in tantissimi, il prato si è riempito, e noi.. zac, là vicino con la panca. E poi che dire? l’aria era fresca, si stava bene, Guido Catalano ha dato il suo meglio tra foglietti svolazzanti , e, per il veloce ritorno nella notte,  come  cavalli verso la stalla, il navigatore l’abbiamo lasciato dormire nel suo angolo

Angelini Manfredi Nahum Spiccio Vanghè, in ordine alfabetico, che se no non saprei come fare

Ordunque, quelle sere in cui mi capita di andare  VanGhè, se appena riesco mi piace portare qualcosa da mettere sul tavolo dell’aperitivo, e così il sabato pomeriggio 28 aprile ho preparato il mio cavallo di battaglia, una torta salata   seguendo la ricetta “apri il frigo e guarda cosa c’è” ed è toccato a spinaci, zola e brie.
E feci bene, perchè a me non piace molto il pesce, perchè quella sera, in cui andavo a sentir musica di  sicuro pregio,  che in Sanremout mica si parla di fole,  il cantautore ligure si sarebbe dato  alla cucina: indossato il grembiulone maitre Angelini si è ritirato dietro le quinte a preparare il sugo di muscoli,  ad affettar patate e aringhe, ed a e tritare prezzemolo, in quantità industriale. Dovevamo essere in venticinque, infatti, e si era ignari che il numero sarebbe più che raddoppiato, chè siamo italiani, e a nulla puote  scrivere nella locandina di  prenotare.
E poi l’acqua non bolliva mai, e come accade nelle cose compartecipate occorreva rintracciare chi avesse riempito il pentolone formato naja per sapere quanto sale ci avesse messo.
L’acqua non bolliva, e dopo anche la pasta era lunga a cuocere,  Marco Spiccio si è messo al piano e suonava in modo tale, e anche diceva cose che facevano un po’ ridere, ma anche sorridere,  che insomma l’acqua poteva anche non bollire mai, andava bene così:  però  non capisco la platea milanese, cioè, proprio milanese dura…  Con la facoltà di scegliere cantautori, di dove li poteva mai scegliere, la platea? di Milano, e tè giù una canzone di Jannacci. Ma io mi dico, questi musicisti son tutti liguri, son qua a Milano che di solito sono i milanesi che vanno in Liguria, e gli chiedi Jannacci? E Conte no, per dirne uno*? Ma è andata lo stesso, gli spartiti sul piano di Spiccio hanno la dimensione di una Bibbia.
Così mentre vai a sentir musica dai una mano ad apparecchiar la tavola, e cerchi di scattare qualche foto in giro, che un po’ ti senti anche rompiballe con la macchina fotografica  in mano, col teleobiettivino, che sembreresti una gran fotografa e invece  il libretto di istruzioni della Lumix Panasonic non sei mai stata in grado di decifrarlo, ti manca la laurea in fisica. Però quando volevi fare fotografie allo chef che rimestava pasta e sugo, che ci volevano muscoli anche nelle braccia e non solo nel sugo, da tanta era, e vedevi che occorrevano altri piatti e altri cucchiai, hai anche appoggiato la macchina e lavato i piatti e i cucchiai delle portate di patate e aringhe, e le mani avrebbero saputo di aringa per tutta la sera, che poi andandosene  in fine di serata, al saluto del maestro Angelini  con tanto di baciamano, ti sei scusata, “Ma so di pesce” , “anch’io!” ha risposto ridendo lui.  Beh, tanto è a me che il pesce non piace. Ma anche al ragazzo seduto a tavola davanti a me, non piaceva il pesce, e dopo aver assaggiato le patate prezzemolate con l’aringa, e la pasta con i muscoli, si è circonfuso di luce “mangerò pesce tutta la vita!”. Quindi al Van Ghè capitano anche miracoli, ma non mi stupisce più di tanto, in un posto dove si sta tanto bene.
Sono giusto riuscita a perdere l’inizio del concerto perhè ho dato un passaggio alla metropolitana verde ad un amico che veniva da fuori, poi vedrò  se mi sono presa anche un paio di multe lungo la strada del ritorno al Vanghè. Così ho potuto ascoltare un paio di canzoni ancora dell’Angelini, e non chiedetemi mai un titolo, non li saprò mai, non me li ricordo,  ed allo Spiccio pianista si  era aggiunto il Nahum chitarrista, che ho scoperto essere quel signore, già seduto piuttosto vicino a tavola, e che si metteva sempre tra me e lo Spiccio quando volevo fotografarlo dal mio posto, ma anche egregio compositore, come si è accertato in loco, con testo di Angelini.
All’Angelini è subentrato Max Manfredi, con chioma garibaldina per sua stessa ammissione, e la serata si è chiusa con Angelini, e insomma, si capisce che quei quattro lì sono amici e fanno le cose divertendosi, questa era l’atmosfera che si sentiva,  senza quel dualismo io sono l’artista e te sei il pubblico, buono lì.

*mi hanno giustamente segnalato che Conte è piemontese, ed infatti è nato ad Asti, non mi sono neanche mai sognata di controllare, perchè per me è genovese, come fosse una di quelle cose che nasci e le sai. Chiedo quindi venia. E pare che il nome sia stato proposto, ma mica ho sentito dal mio angolo!

Ogni tanto, qualcosa di magico.

Il venerdì 17 non è sempre un giorno in cui tutto va di sfiga, anche se capita di sbagliare uscita in tangenziale, e  non si ha magari la chiave per entrare al Vanghè, e capita di aspettare un po’.
Ad esempio, per me è stato il giorno in cui ho ascoltato Milena Prisco leggere in modo struggente il suo testo, Marco Cavallo è vivo, accovacciata nella quasi totale oscurità, e mentre seguivi il suo tormento, Stefano Giorgi tracciava magie sul telo alle spalle di Milena, in una sintonia perfetta, di immagini, di parole con i suoni padroneggiati da Roberta, il nitrito di Marco Cavallo, il pianto e stridor di denti del luogo dove delle persone – sostantivo non scelto a caso -sono tenute in contenzione.Ancora adesso, dicono gli addetti ai lavori, nonostante la legge Basaglia e nonostante sia idea comune che i matti ora son tutti sguinzagliati in giro, che se ti guardi intorno, o leggi certe cose, pensi anche che sia vero, ma non sono quei matti lì, di Basaglia.
Stefano il mago ha aperto una cappelliera, tutta illuminata dentro, e tracciava segni su un vetro, e quei segni si animavano sul telone, e due biglie correvano  in un coperchio di plastica ed erano occhi sgranati sullo schermo, e gocce di colore che si scioglievano nell’acqua spiegavano il malessere che si sentiva dentro, ed il sogno di libertà, e il coperchio ondeggiava e la marea si ingrandiva sullo schermo. Una magia con qualche pennello, coperchi di plastica dei cioccolatini, qualche sagoma ritagliata, Marco Cavallo con le lunghe zampe e la bambina aggrappata, per correre oltre il cancello, dove ci sono gli alberi verdi.

E poi, Marco Cavallo esiste davvero, era un cavallo, ora è un simbolo, e finchè ci si crederà non morirà.