Innanzitutto, il cinema Eliseo si presenta tristissimo. In fondo a una galleria -galleria di quelle cittadine, ovviamente – c'è il botteghino, dove ti chiedono " Va bene centrale in mezzo?" tu ti fidi e dici sì, difficile rispondere "No sotto lo schermo"oppure "No, l'ultima fila in fondo, tanto ho altro da fare". Anche "Centrale di lato" sarebbe una bella risposta, un signor Veneranda si soffermerebbe sul fatto che se è centrale non può essere di lato, e così via. Due porticine di vetro ai lati, e si entra nel cinema, un cinema in grigio, che d'estate senza paletot non ti aspetti, e ti stupisci di non trovarci anche la nebbia. Però, nella sala, le poltrone grige, attrezzate con portabottiglioni, ti accolgono e ti avviluppano, stai veramente comoda, e poi, quando guardi un film, ti dimentichi dell'incolore che ti circonda. Nonostante il sadismo della tipa del botteghino, che ti piazza le persone nella poltrona di fianco, in un cinema semivuoto, così devi anche spostare la borsa e fare attenzione al gomito.
Di questo film, che pure è stato premiato a Cannes, mi sembra si sia parlato poco, erano tutti preoccupati a dare interpretazioni più o meno roboanti del film vincitore, e come succede di solito, le piccole cose quotidiane non polarizzano l'attenzione, appunto perchè quotidiane, aggettivo per molti sinonimo di "scontate": eppure il quotidiano non è poco complesso, da affrontare, e da capire.
Qui c'è un ragazzino biondo, magrino e incassato nelle spalle, che cerca il padre, che lo ha lasciato in un istituto e non lo rivuole, deve rifarsi una vita e lo vede come un impedimento.
Stranamente, nessun cenno a una madre. Non sai nulla del passato. Si comincia con questo stato di fatto, il bambino rivuole suo padre, ma della sua vita precedente recupera solo la bicicletta, che suo padre aveva venduto. E questa è la prima grossa delusione nel film, scoprire che la bici non era stata rubata, era invece certo, Cyril, che suo padre non avrebbe mai potuto venderla. Cyril di corsa, a piedi, in bicicletta, arrampicato, sempre in fuga, sempre in cerca, mai in pace. La parrucchiera Samantha, incontrata per caso, o meglio, scontrata per caso, gli riporta la bicicletta e lo accoglie nei week end, sacrifica il rapporto con il suo compagno, innervosito dalle stranezze di Cyril, pone riparo al guaio che il ragazzo ha combinato rubando, sotto l'influenza di un capetto di una banda di bulletti del quartiere, a Cyril che le chiede scusa per averle ferito un braccio, e se può vivere con lei, risponde tranquillamente sì.
E Cyril alla fine del film sorride, lo sguardo è meno torvo, le spalle sono più distese, non è più in credito, anzi può permettersi di dare; soprattutto si avverte che c'è un domani. La forza della donna è dire sì, quando la vita sembra sempre dire no, a Cyril, e l'amore e il coraggio riescono meglio di mille psicoterapie. Che poi Cyril chiede a Samantha " Ma perchè mi hai detto di sì, quando ti ho chiesto se potevo venire nei week end a casa tua?" Samantha risponde semplicemente "Non lo so". Ed in effetti, uno si chiede perchè un po' per tutto il film, ma avere delle risposte, non è obbligatorio, o forse non esistono ancora le parole giuste. Le parole, con il loro significato, descrivono ma anche delimitano, bisogna ancora inventare quelle senza i bordi.
A questo punto, quando si parla di cinema, occorrerebbe dire qualcosa sugli attori: non ne conosco neanche uno: il ragazzino è esordiente ed efficace, Thomas Doret, la parrucchiera deteterminata è Cecile de France, che altri e non io hanno già visto in Hereafter, la regia è dei fratelli Dardenne, dei quali pure non ho visto altri film, e posso solo considerare quanti fratelli fanno i registi. In genere dei film noto o mi rimane impressa la fotografia, e qui no. E neanche la colonna sonora. Certo, la storia ti prende, basta essere genitori, direi, e non vivere con le fette di salame sugli occhi.