Archivio mensile:agosto 2010

Fili, spilli, e nastri, soprappensiero.

I bottoni a forma di corno, e  color corno, erano del montgomery, e quelli rossi dovevano essere della giacca di una mia sorella, e quelli piccoli rosa carnicino di un golf aperto davanti che mi ha fatto la mamma e non mi è mai piaciuto, tutto smollaccione, forse lo apprezzerei adesso, che mi piace annidarmi nei golfoni.  Nel sacchettino col bordo di pizzo Sangallo c'è ancora il bigliettino, Camilla e Maurizio, 14 giugno 2003, oggi hanno un bel bambino. Nella scatola della stilografica avevo messo gli uncinetti, grossi da lana, medi da cotone perlè, e sottilissimi. Ci metto anche gli spilloni della maglia, quelli che si usano per tenere i punti dello scollo. Con la lana, ad uncinetto, ho fatto una coperta di lana, seguendo le istruzioni di un giornale femminile, che riproduce il paviemento della Certosa di Pavia, ed altri plaid con gli avanzi, a quadratini, patchwork. Con gli uncinetti medi confezionavo patine colorate, con quelli sottili pizzi rotondi, o quadrati. La zia Liliana mi aveva commissionato una tovaglietta per coprire la lavatrice. Non sono mai stata abile nel fare i golf, a meno che non fossero per bambini, però anche con i ferri e avanzi delle lane che usava la mamma ho fatto un paio di coperte.
Il puntaspilli è pieno di aghi con fili ancora infilati: la signora Margherita, dell'oratorio, insegnava alle bambine il ricamo, e mi ci son messa anch'io,  mamma, a ricamare, a rifinire gli occhielli, e poi il punto croce. Era molto attenta, Margherita, a non sprecare il filo, e l'adoravo, era la nonna come non l'avevo avuta, era una donna forte che aveva perso una figlia e ne stava allevando i figli.
Non so più niente di lei, forse c'è ancora, vecchissima, le donne come lei non muoiono. Mia nonna, la mamma di mio padre, era invece una donna malmustosa che seduta sempre al tavolino rotondo del salotto, impartiva ordini a tutti, e faceva capricci perchè era vecchia, però aveva sempre le caramelle di menta fondenti Perugina, che mi piacevano tantissimo, e mi dava i cioccolatini Caffarel a forma di ghianda, e di fiore.
Riordinare il cassetto delle cose del cucito non è impresa da poco.

stasera la micia non è ancora tornata a casa

Mi ero allontanata ieri dalla casa nell’Oltrepò, per andare a Milano incontro alla Princess ed allo Tsunami che tornavano dal mare, con solo  80 minuti di ritardo del treno.

Attesa snervante in stazione, un ritardo accresciutosi di cinque minuti in cinque minuti, aggiunti sul tabellone  nel momento in cui ci si aspettava di veder comparire il numero del binario.

Non sapevo che il giorno dopo avrei patito un’attesa ben peggiore.

Oggi,  quando sono arrivata in campagna  buon’ultima, la Princess mi dice smorfiata che non vede la micia.

Il capofamiglia ha dato da mangiare allo zoo domestico, ed i gatti nella mattinata giravano per casa: non ero preoccupata, sarà restata al sicuro sotto qualche letto, udendo i chiacchiericci dello Tsunami, le ho detto

Quando salgo al piano di sopra, vedo movimenti di coda sotto il cassone del letto, ma è il micione che esce a salutarmi.

Della micia nulla, sarà in giro, sotto qualche cespuglio, oggi c’è  di nuovo il sole: nei giorni precedenti erano stati pigroni e casalinghi, un po’ l’adattamento dalla città alla natura selvaggia, un po’ il maltempo: quando provavano ad uscire,  i gatti agitavano schifati le zampette bagnate dall’erba e tornavano di corsa in casa.

Stasera il micione si aggira da solo, da solo vuole la pappa e da solo mi cammina davanti.  Ogni tanto  arriva, e credo che sia lei, ed invece no, è il mio micione sbirolo, lungo lungo e un po’ sbilenco sulle zampe dietro, Zampito, si chiama. La micia, nome ufficiale Elvira, in realtà è sempre stata chiamata Micia, o Mizzy. Nera, occhi gialli, segni particolari la pancina un po’ spelata; le stavamo curando spray la dermatite, forse ha deciso che non avrebbe tollerato oltre il sopruso di quel colpo di seltz.

Il micione non sembra risentire della mancanza della micia, omertoso non mi vuole dire dove è andata.

Può essere che torni, anche tra qualche giorno, non ricordo però sia stata lontano così tanto: è una micia d’appartamento, ma il fatto suo ha sempre dimostrato di saperlo.

Qui intorno non è: non risponde ai richiami, non  arriva per la pappa, non sentiamo miagolii, e non l’abbiamo vista nei possibili nascondigli.

Quello che è insopportabile, è pensare che magari si è fatta male e non riesce a tornare a casa.

E’ anche insopportabile pensare che forse non saprai mai più nulla.

E chi vuole può pensare che è solo un gatto,  e che nel mondo succede ben altro, tragedie dove non sai più nulla delle persone: si lo so, ma  esiste anche questo piccolo mondo personale, ed al cuor non si comanda.



La massaia è demodè.

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Quando non vivi quotidianamente in un posto, che ti è però abbastanza familiare,

e ci torni dopo un po’, ti  accorgi dei suoi cambiamenti,  e ti rendi conto della direzione che han preso, o ci fan prendere, alle nostre vite.

Stradella è un piccolo centro dell’Oltrepò Pavese,  e porta un nome giustamente vezzeggiativo, se si gira a piedi nel centro sono casette, cortili, case padronali, vicoli, la piazza  quella bella  con l’acciottolato… niente da invidiare agli  altri centri storici, quindi, c’è tutto quel che serve.

Ho cominciato a frequentarla quando si è trattato di sistemare alla meglio il rustico del capofamiglia nell’Oltrepò.

C’era l’arrotino che vendeva coltelli di tutti i tipi, e c’è ancora, credo sia un mestiere immortale in una zona di vigneti e giardini.

C’era un grande negozio di casalinghi che vendeva anche le stufe e le cucine economiche, a legna, e c’era il materassaio, un omino minuto, sardo di origine, che si muoveva in una bottega tutta piena di lane e crini, e tele fiorate: del negozio di casalinghi, il locale con il fronte sulla via grande  è diventato un “kebab”,  e  i locali sul retro portano il cartello affittasi.

Gli unici piccoli supermercati  che conoscessi, il Gulliver affiliato Standa ed uno Skipper, sono stati via via affiancati da Unes, Lidl, ed altri discount: un duro colpo è stato inferto poi all’Unes di Stradella, situata al confine col comune di Broni, quando esattamente di fronte è sorta l’Esselunga di Broni, al confine con Stradella.

Tra le boutique del pane, resiste ancora una panetteria buia, con le piastrelle di graniglia, un  bancone severo, ripiani solo  con confezioni di pasta secca, di marca, e la fornaia serve solo  pane, la  mica, il pane del posto, che puoi tagliare per giorni, e la treccia.

I bar, i tradizionali bar di paese che ancora c’erano nelle vie principali,  anch’essi il più delle volte poco luminosi,  bancone in alluminio un po’ ammaccato,  tavolini  e seggioline in formica verdolina, ora portano nomi trendy,  hanno sgabelli, e tavoli di legno, poltroncine, lo staff  di un bar che ha la pagina su Facebook porta la maglietta con il nome del locale.

Devo vedere come sia ora il Flamingo, la discoteca dall’insegna rossa e gialla, mi sembra abbia cambiato nome.

che io sapessi. Il mercato il martedì, la domenica solo di alimentari.

Anche il mercato sta cambiando, aumentano le bancarelle cinesi, diminuiscono i casalinghi e gli articoli da massaie.

La massaia è demodè.

I paesi più piccoli, le frazioni, sembrano ancora resistere all’omologazione, alla perdita di identità.

L’evoluzione fa parte della vita e della storia, è naturale quindi  notare cambiamenti, ma non so se anche i nostri predecessori abbiano avvertito  quella sensazione che sento sempre addosso io, come se qualcuno volesse che siamo in un certo modo, tutti a fare la stessa cosa in uno stesso momento, a desiderare le cose che ci mette lì apposta per desiderarle.  

 

 

 

Il solista (anzi, due)

Non sapevo niente del film, tranne che il protagonista fosse un suonatore di violino randagio,  tant’è vero che quando ho visto la prima scena, il ciclista che cade e si fa male, credevo che il solista fosse lui, e mi sembrava che come mendicante randagio fosse troppo a puntino.
Invece era il co-protagonista, l’altro solista (della penna), ed era la prima delle scene senza capo nè coda, diciamo di contorno alla vicenda, insieme alle altre due, andare a farsi fare le analisi per conto del giornale e scrivere un articolo sugli effetti dell’inquinamento, e la vicenda dei procioni che devastano il giardino e da tenere lontani con l’urina di coyote, che, si scoprirà, vendono liofilizzata. Forse queste due ultime non sono propriamente inutili, forse danno un quadro dei limiti, sempre valicabili, raggiunti dall’alienazione nel nostro evo. Al pari delle riprese di Los Angeles dall’alto. Gli anelli delle strade che sovrastano l’abitato e nei quali scivolano rettangolini, gli stessi rettangolini che vedi allineati fermi  tutti uguali in immensi parcheggi sotto i cavalcavia, e la sconfinata estensione di rettangolini di casette tutte con la loro macchiolina turchese di piscina.
Terrificante confronto con i quartieri dove gli uomini randagi si accalcano e sopravvivono in mezzo alle loro  violenze, malattie, dipendenze,  una violenza che non è solo la loro ma a questo punto sembra lo sia il vivere stesso, aiutati da energici volontari, da loro rispettati.
E sotto questi anelli di strade c’è un senzatetto vestito in modi vivaci, il sig. Nathaniel Ayers, cultore di Beethoven che non può tollerare una cicca di sigaretta buttata per strada. Il gionalista trova la sua storia, il senzatetto malato di schizofrenia trova il suo punto di riferimento. Come sempre, non mi piace narrare la vicenda in modo particolareggiato, se no uno che legge qui poi non si gusta il film. Posso dire del fine abbastanza lieto, senza palloncini che volano in quanto il regista è inglese, abbastanza lieto dicevo perchè il senzatetto non guarisce, semplicemente i due protagonisti trovano un equilibrio nel loro rapporto, diventando semplicemente amici senza essere più vicendevoli strumenti quasi ossessivi.
Ed è da non perdere la colonna sonora, assaggiatela nel trailer, perfetta.