Archivio mensile:gennaio 2010

Il riccio

Non ho letto il libro L’eleganza del riccio, ma tanto l’autrice non lo ha riconosciuto nel film.
Per quanto best seller, non ho ancora un parere di chi abbia letto il  libro e visto il film.
Cosa dire… che amo per principio i film francesi. Ci sono narrazioni intere nell’inquadratura  di un volto, di uno sguardo, di un sorriso che spunta e subito si nasconde,  nei dialoghi scarni.
Tra i personaggi esasperatamente caratterizzati, alcuni vere caricature,  filtrano inaspettate sintonie.
La portiera che si reca dal parrucchiere la prima volta dopo anni, e ne riesce con un altro viso, e riprende le sue attività nell’androne della lussuosa casa parigina… una semplice occhiata sospettosa allo specchio che la riflette ben pettinata con la scopa in mano, lascia capire tutto dei pensieri e delle timidezze di questa donna sciatta che torna ad aprirsi al mondo esterno.
Per non parlare dei dialoghi, l’impietosa  Paloma (la sorella si chiama Colombe, e la madre parla con le piante di casa un tot di ore al giorno) a tavola comunica al padre ministro:
"da grande farò la portiera"
"faremo di tutto perchè tu possa realizzare i tuoi sogni" risponde impertubabile il padre.
"da grande farò la portiera" dice alla portiera
"non dire sciocchezze, da grande farai la principessa" risponde lei.
Un film da vedere….è che neanche dopo la fine del film smetti di chiederti se questa portiera non fosse stata una principessa.

Vecchia, ma sempre molto attuale… non sto parlando di me

c’era una volta una squadra svedese di canoa

Una società svedese ed una giapponese decisero di sfidarsi annualmente in una gara di canoa con equipaggio di otto uomini.

Entrambe le squadre si allenarono e quando arrivò il giorno della gara ciascuna squadra era al meglio della forma – ma i giapponesi vinsero con un vantaggio di oltre un chilometro.

Dopo la sconfitta il morale della squadra svedese era a terra. Il top management decise che si sarebbe dovuto vincere l’anno successivo e mise in piedi un gruppo di progetto per investigare il problema.

Il gruppo di progetto scoprì dopo molte analisi che i giapponesi avevano sette uomini ai remi e uno che comandava, mentre la squadra svedese aveva un uomo che remava e sette che comandavano.

In questa situazione di crisi il management dette una chiara prova di capacità gestionale. Si ingaggiò immediatamente una società di consulenza per investigare la struttura della squadra svedese.

Dopo molti mesi di duro lavoro gli esperti giunsero alla conclusione che nella squadra c’erano troppe persone a comandare e troppe poche a remare.

Con il supporto del rapporto degli esperti fu deciso di cambiare immediatamente la struttura della squadra. Ora ci sarebbero stati quattro comandanti, due supervisori dei comandanti, un capo dei supervisori e uno ai remi.

Inoltre si introdusse una serie di punti per motivare il rematore:

"Dobbiamo ampliare il suo ambito lavorativo e dargli più responsabilità".

L’anno dopo i giapponesi vinsero con un vantaggio di due chilometri.

La società svedese licenziò immediatamente il rematore a causa degli scarsi risultati ottenuti sul lavoro, ma nonostante ciò pagò un bonus al gruppo di comando come ricompensa per il grande impegno che la squadra aveva dimostrato.

La società di consulenza preparò una nuova analisi, dove si dimostrò che era stata scelta la giusta tattica, che anche la motivazione era buona, ma che il materiale usato doveva essere migliorato.

Al momento la società svedese è impegnata a progettare una nuova canoa.

Io e la poesia

Da bambina leggevo tantissimo.
Ricordo che dopo i grandi pianti, e più avanti negli anni, dopo più o meno grandi delusioni, mi accoccolavo sulla poltrona con un libro tra le mani, leggevo le prime parole attraverso il velo delle lacrime, e poi via,  lontana da tutte quelle tristezze. Capitava magari di piangere di nuovo, leggendo le storie, di sicuro  lacrime più belle, di quelle che che lasciano  veloci il posto ad un sorriso complice. Mi capitava di innamorarmi di alcune illustrazioni, prediligevo quelle dai colori tenui e delicati, come acquarelli, le carezzavo, carezzavo la carta liscia e robusta.
Da bambina pensavo che avrei scritto, che sarei diventata una poetessa.
Un giorno la scrissi, una poesia, con l’immagine che mi veniva in mente sempre quando pensavo a cosa scrivere in una poesia “La montagna si staglia alta nel cielo”.
Non ricordo come fossi andata avanti, forse scrivevo di un ruscello azzurro e di abeti verdi.
L’immagine mi sembra di vederla ancora… però non trovo più la poesia, avevo fatto anche il disegno.
La montagna – le montagne hanno il compito di stagliarsi – il cielo  azzurro, il sole con i raggi gialli.  E un prato, perchè da bambini si disegna quasi sempre un prato ai piedi di una montagna solitaria.
Ma anche un grande, se gli si dicesse di disegnare una montagna, non farebbe qualcosa di molto diverso.

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La vedevo tutti i giorni, seduta per terra contro il pneumatico di una macchina posteggiata sul marciapiedi, di fronte all’ingresso della panetteria.

Alle volte arrivava il mio capo in bicicletta, saliva sul marciapiedi, le allungava una moneta e ripartiva.

 

A me non piace più fare l’elemosina,  da bambina  all’uscita dalla Messa  mettevo fretta al papà perché mi desse le monetine da mettere nei cappelli, sulla scalinata del Corpus Domini, adesso non ho più le idee chiare.

Una volta  per me un povero era un povero, insomma,  leggevo La piccola fiammiferaia,  e Cosetta, e Senza famiglia.  Un povero era un povero,  adesso è un problema complesso.

 

Verso l’ora della chiusura si presentava sulla porta del negozio e la panettiera ucraina le dava pezzi di pizza, e di focaccia. A dire il vero li dava anche a me, oltre a quello che compravo: sorridente e con qualche strafalcione d’italiano mi diceva  che per il giorno dopo non se ne faceva nulla, e più tardi veniva uno che prendeva il pane avanzato per le galline, ma non le piaceva, quel tipo.

Capitava che coi colleghi  si parlasse della zingarella,  a volte, a pranzo durante la pausa: a quell’ora di solito  sostava davanti al nostro ingresso. Era molto giovane, forse tredici anni, dicevano. Era incinta, dicevano.

Era incinta, e per qualche giorno mancò, e poi ricomparve con il bambino nella carrozzina.

Caterina le portava vasetti, vestitini,  pacchi di pannolini, niente denari. “Non le do soldi, perché la sfruttano, così faccio star meglio il bambino” diceva.

Io evitavo anche di incontrare il suo sguardo, continuavo a non sapere cosa pensare.

Non si ribella, non ne ha la forza,  o ha paura, o forse  non le viene neanche in mente, le va bene così, è  la vita delle donne come solo la conosce,  forse.

Nel tardo pomeriggio sta seduta sulle scale della metropolitana, con il bambino in braccio, questo bambino sempre fermo, che cresce sempre attaccato a lei, pulito, e sorridente.

Uscivo all’una nell’afa di luglio, ero sola, lei accovacciata nella magra ombra della fermata del filobus, mi ha chiesto se avevo dell’acqua,  “Te la porto”.

La panetteria ha chiuso, sulla serranda c’è scritto “bestia”, il cartolaio vicino mi ha detto che il territorio è marocchino,  ed il panettiere era egiziano. “Bestia” però era scritto in italiano.

Ormai si vede,  è di nuovo incinta.

Alla fine di novembre è nato un altro maschietto, era davanti al portone dell’ufficio, con il passeggino ed il neonato in braccio

Dopo, è sempre venuta solo col piccolo, e diceva che stava già finendo il suo latte, e Caterina  le portava del latte in polvere.

Mi interrogavo sul figlio più grande,  se conduceva ora una vita da bambino e poteva finalmente camminare e giocare…  o forse no, piangeva perché non era con la sua mamma come era sempre stato abituato. Devo chiedere a Caterina, forse lo sa.

In questi giorni di Natale non l’ho vista.

A me questa  sembra una storia crudele e continuo a non sapere cosa pensare.