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Tempo di Libri, Milano 2017

Premetto che non sono un’addetta ai lavori, sono solo una che bazzica.
Lascio stare tutte le questioni economiche, i perchè della nascita dell’esposizione a Milano, non li conosco approfonditamente, mi interessano poco, son giochi sopra le nostre teste.
Mi interessa cosa trovano le persone, i potenziali lettori, che vanno a queste manifestazioni.
In attesa di tornare al Salone di Torino, che sarà dal 18 al 22 maggio 2017, per vedere cosa ne sarà –  da un’occhiata al sito sembra lì bello e robusto – scrivo qualcosa sull’evento  di Milano, il mio consueto mucchietto di pensieri.
Il confronto è inevitabile, dovuto anche alle macroscopiche somiglianze.
Un primo pensiero è che occorre valutare Milano (li  chiamerò uno Milano e l’altro Torino, per brevità) con una certa oggettività, non con dispetto,  gelosia,  prevenzione, perchè il nuovo non lo conosciamo e siamo affezionati al vecchio: questo atteggiamento non giova al libro e alla cultura… vediamola come un’occasione in più.
Consideriamo il periodo… non è certo favorevole scegliere un ponte vacanziero, un solo mese distante da  Torino… ma in  marzo c’è Book Pride, e in novembre c’è Book City, a settembre il festival della Letteratura di Mantova, e mettiamoci Roma nel periodo dell’Immacolata.
Il logo e il sito di Torino sono un passo avanti rispetto Milano: il programma online era inguardabile, con i riquadri che non contenevano i nomi completi degli eventi, e bisognava aprirli per leggerli,  e pochi riquadri per pagina… una consultazione, online, che richiedeva  un sacco di tempo, tutt’altro che visivo.
E anche non mi pare si sia martellato abbastanza, per fare sapere della novità milanese.
Anche nel metrò non  c’erano indicazioni palesi per il libro, per chi arrivava per la prima volta, come la sottoscritta.
Nei padiglioni la numerazione degli stand non so bene che criterio seguisse, a me sembra che siano riusciti a rendere inutili lettere e numeri, non devono aver mai giocato a battaglia navale:  perchè chiamarlo G02 se non lo trovi tra G01 e G03, anzi si passa dal G2 al G9?   neanche si poteva dire che i pari sono in un padiglione e i dispari in un altro.
Il nome, Tempo di Libri, non è un granchè, e se per Torino c’era il Fuori Salone, o Salone Off,  Fuori tempo di Libri è un filo penoso, anche Tempo di libri off non suona meglio.
Occorre dire che è difficile trovare una qualche denominazione  che riguardi il libro e non sia stata usata…  LiveBook? EveryBook?per state in assonanza con Book City e BookPride.
I due saloni si assomigliano parecchio, per quando riguarda gli stand e le sale per gli eventi: a parte il fortilizio del Libraccio, e alcune editrici grandi che avevano dato una parvenza di arredo al loro spazio, i piccoli, con minori mezzi economici, cosa possono fare se non impilare i loro libri sul banco?  Una cosa, a Milano rispetto a Torino i nomi degli editori non erano tutti visibilissimi.
In ogni caso penso che i libri radunati in uno spazio unico siano meglio usufruibili da famiglie con membri di ogni età, ci si muovono  agevolmente carrozzine passeggini e carrozzelle e stampelle.
Presentazioni e conferenze ce ne sono per tutti i gusti.
Mentre per Book City devi correre per tutta la città, bella come idea di distribuzione capillare della cultura, magari di fianco a casa tua,  ma non bisogna essere pigri, e bisogna scegliere bene,  che se poi scopri che non ti piace…gambe in spalla e corri da un’altra parte riattraversando la città, che non è piccola, mica è Mantova.
Quanto alla raggiungibilità, sia Milano che Torino sono servite da metropolitana e da posteggio, c’è lo sportello bancario, a Milano ho notato in più una edicola tabacchi e una  defibrillatore… oddio, magari c’erano  anche a Torino, e non li ho visti.
Affluenza… Torino 2016, ci sono tornata dopo un paio di anni di assenza, era parecchio dimagrita,  come stand, ma l’affluenza era comunque maggiore rispetto questa prima edizione milanese. Ma appunto per Milano è la prima… spero non l’ultima, come spero di continuare ad andare a Torino col mio trenino, e vedere gli aironi nelle risaie all’andata, e non vedere più niente al ritorno, per la stanchezza.

 

 

La questione dei doni di Natale

Quando ero piccola era fuori discussione, la lettera si scriveva a Gesù Bambino, che ti portava i doni. Nessuna spiegazione di come facesse un neonato a far tutte quelle cose,  era implicito, dal momento che era praticamente Dio  e già aveva creato il mondo in sei giorni, solo in un secondo tempo creò il calcio per non annoiarsi la domenica.
La Befana mi convinceva di più,  le si lasciava su un tavolino del pane, del latte e una mela, ed alla mattina trovavo la tazza vuota, e delle briciole, segno indiscutibile del suo passaggio. Era evidente che si era portata via la mela, perchè mancava il torsolo e il picciolo: mio padre, persona onestissima, era tanto avveduto che forse avrebbe potuto pensare il delitto perfetto.
Quando erano piccoli i miei figli, ho dovuto mediare, tra un Babbo Natale in espansione e Gesù Bambino che cercava di tenere la sua posizione, c’erano opposti schieramenti, come per Beatles e Rolling Stones, Mina e Milva:  insomma,  Gesù Bambino era una sorta di capo d’impresa che  dirigeva il traffico di doni sguinzagliando i suoi Babbi Natali per ogni dove.
Ora, che è piccolo mio nipote e sono di nuovo addentro alle questioni dei bambini, mi sembra che di un Gesù Bambino, portatore di doni impacchettati e infiocchettati, non se ne senta più parola.  Mi sembra, magari mi sbaglio: forse è anche meglio, si fa meno confusione con i doni che può portare Gesù Bambino, e ci sono altri Natali, lo ricorda oggi, vigilia di Natale,  un articolo di stampa in modo molto molto efficace.

Beatles-Live at BBC versus Rolling Stones-Stellavox

30 maggio 2013, ore 21, Legend 54, via Fermi 98,  Milano. Il navigatore di Beppe non prendeva in memoria numeri civici superiori al 27, così abbiamo seguito le indicazioni per il 27, l’importante, si diceva, era arrivare in via Fermi.  Il 27 non lo abbiamo visto fatto sta che seguendo una freccia sbagliata, che per il navigatore eravano arrivati, siamo finiti fuori da via Fermi, anche perchè il 27 è dispari e cercavamo un numero pari, quindi l’altro lato di questa sorta di autostrada cittadina. Il mio android aveva piantato la sua bandierina  “98” e indicava il percorso da farsi,  avessi avuto una lente di ingrandimento sarebbe stato meglio, in ogni  caso aveva questa freccina semovente salvifica… solo che , arrivati al punto della bandierina, c’erano solo prati. E qui mi ripongo la domanda che mi ritrovo a domandarmi  sempre più di frequente, e cioè, l’informatica è finalizzata a servire l’uomo o ad asservirlo?  In ogni caso, il Legend 54 era poco dopo, effettivamente è al bordo del sino allora per me sconosciuto Parco Nord, nel quale non ho visto esquimesi ma solo parecchi sportivoni che facevano le loro corsette felpate.  Sembra un bel posto, questo Legend. In una sorta di veranda, protetta dalle piogge invadenti, si stava svolgendo sicuramente la pizzata di fine anno di una classe delle elementari. All’esterno, nel giardino, gazebi ed amache, e tavolini, insomma,  un luogo accogliente per molte occasioni, mi è parso, peccato così lontano da casa mia, per una frequentazione più frequente.  Ad un tavolino c’erano due o tre uomini, uno grande e grosso, il cassiere, ho pensato, perchè mi ha detto che la cassa apriva alle nove, e un altro, coi capelli lisci un po’ lunghetti, il collo fatto su in una sciarpa leggera, che ci ha invitato al tavolo in quanto ho detto che  Beppe è rollingstoniano, ma stavamo ancora cercando Paolo, Beatlesiano. Poco dopo avrei saputo che si trattava di Mick Jagger, cioè, il cantante degli avversari, Andrea Pagano: potevo indovinarlo dalla sciarpa, tutto sommato, visto che questa estate incipiente ha le temperature ottobrine.  Poi, con Anna, abbiamo deciso di entrare, e di cominciare a prendere il posto, cosa che è assai imbarazzante quando è ancora tutto libero.  Poi è successa una cosa curiosa, scelto con Anna il posto che mi sembrava migliore per scattare fotografie con libertà di movimento, tra l’altro  vicino alle mogli beatlesiane ,  il marito Anna e Beppe si sono poi  seduti altrove, a un tavolino , e vabbè.  Anzi, due cose curiose, la seconda, che il presunto cassiere era in realtà Charlie Watts, infatti era assiso alla batteria rollingstoniana.
Nella sfida si alternavano le canzoni, una dei Beatles e una dei Rolling, praticamente tutte conosciutissime, e trovo anche superfluo elencarle, uno, perchè i titoli non me li ricordo mai, due, perchè appunto chi non conosce i loro ineguagliabili  maggiori successi? Paint it Black, Con le tue lacrime, Ruby Tuesday, Chains, Love Me Do, A Ticket to Ride sono solo i primi che mi vengono in mente di un elenco che minaccia di essere infinito.
Il finale prevedibile della disfida tra i Beatles/ Live at BBC e i Rolling Stones/Stellavox  è stato il pareggio, ed anche le opposte tifoserie non erano per niente accanite, e men che meno io, che per quanto adoratrice dei Beatles, fui acquirente adolescenziale anche di un paio di LP dei famigerati Rolling.
Certo i Beatles , che appunto finirono Baronetti (un colpo mortale inferto loro dai regnanti britannici)  erano più compostini e rassicuranti,  almeno all’apparenza, dei Rolling Stones , che si portavano dietro un’aura di dissolutezza.
Parimenti, i Live suonavano serafici, ed  gli Stellavox  avevano Mick Jagger che abbracciava il microfono, interpretava con la voce e con il corpo, muovendosi a suo agio e disinvolto in scarpette rosse per tutto il palco. E sicuramente pareggio giusto e meritato,  ben conoscendo i Live at BBC, gli Stellavox sono stati una bella scoperta.
O Beatles, o Rolling Stones, poi quando diventi grande, diventano The Beatles e The Rolling Stones, due espressioni diverse di innovazione, aria nuova, e sicuramente storia della musica nonostante quello che borbottavano i genitori anni ’60.

Tombola!

La mamma si assesta, passando dalla carrozzina alla sedia, il suo sguardo, una volta di occhi azzurrissimi, è sempre quello di una persona che sta subendo un grande torto, ed anche il labbro inferiore ha la postura da bambina imbronciata. Il grande torto che sta ricevendo è quello di avere 99 anni, e tutti che le dicono come vorrei arrivare alla sua età e lei puntualmente li sconsiglia, e suggerisce l’età giusta, 80.  E’ Pasqua, e nella casa di riposo hanno organizzato la Grande Tombola di Pasqua: premio, un uovo di Pasqua, naturalmente. Passa l’infermiera con le cartelle, e la mamma non contenta di due, ne voleva di più, però le lasciano tre pennarelli.
Credo che la tombola sia quello che più si avvicini all’emozione del gioco delle carte, nell’attuale vita di mia madre, l’attesa del numero, e potersela prendere con la sfortuna, accidenti a quell’82, che non esce mai, e sfogare sull’82 la rabbia per l’autonomia persa, e la vita che è noiosa.  Diventa ferocissima, a tombola. Abbiamo fatto tre terne, una quaterna,  una cinquina, io ormai mi vergognavo ad alzare la mano  ” Mamma dai lasciamo vincere qualcun altro!”  figuriamoci, mi guardava con dispetto ” Ma no, ma perchè, figurati” e alzava la mano lei “Silviaaaaa” .  Secondo me la Silvia faceva finta di non vederla, ma la mamma mica rinunciava.
Bottino: un portapillole di metallo con scompartino interno (senza pillole), una specie di portacenere quadrato turcheggiante lussureggiante di brillantini, che conteneva una collana di plastica azzurra, due orecchini di plastica dorata, con clip, dalla forma di confetto, due tovagliette all’americana rosa shocking, un sacchetto con coniglietto di cioccolato e ovette.
E’ arrivato mio nipote con la sua compagna, e lui ha regalato a lei la collana di plastica azzurra.
“Ecco, la cosa più bella se la son presa loro”  recriminava la mamma, “e tu sei rimasta senza!”
Ho dovuto portarmi a casa tutto quel ben di Dio, con l’ingiunzione di non regalare niente a Rocio, la signora che viene da me e va a dare una mano alla mamma. E’ di nuovo indispettita “Ma no, ma perchè li devi dare a lei? Tienili tu” La spiegazione che magari a Rocio piacevano,  non era argomentazione sufficiente…

Live after Live for Van Ghè

The show must go on. “ho dimenticato il plettro, tu ne hai uno? ” no non fumo e non suono la chitarra  “quando arrivi fammi uno squillo” , “sei lì?  chiedi al bar di fianco se ci possono dare del ghiaccio, solo se possono, poi arriviamo noi” “sì possono” “siamo in ritardissimo, riesci a fare andare la lavapiatti per spolverare i bicchieri?” No, non riuscivo, tasto “eco”, manopola, ma “on”? La manopola non faceva scattare nulla, il contatore era sul rosso, le spine erano dentro…  Un pensiero, all’inizio le poesie,  le poesie recitate su rumore di lavapiatti dietro il sipario,  siamo troppo avanti qui al Van Ghè… Per fortuna l’intervento del primo uomo arrivato  – una ragazza pisolava sul soppalco, si era svegliata, ma non avevamo risolto-  schiaccia il tasto giusto, di fianco a quello “eco”. Poi arrivano gli strumenti… tutto pieno di strumenti. Laura si allunga sul trabattello a orientare le luci, i leggii sbocciano come fiori in primavera, si allungano i gambi. Perfetto, siamo pronti, peccato che le cibarie son bloccate in tangenziale. Comincia ad arrivare gente, e poi ancora gente, tutti che si salutano, si riconoscono, si abbracciano … ma ci guardo:  siamo tutti noi, ma dico, uno di pubblico, uno? Arrivano le cibarie, e il buon vino, e il registratore di cassa a riempire la tavola decorata con fiori, origami colorati creati dalla ragazza che non pisolava più. E del meccanismo dei  buoni e tagliandini, si capisce nulla, è la prima volta che proviamo a far così per le consumazioni. La scaletta, il mio memo degli artisti scritto su un pezzo di carta, poco più che un francobollo, tutta rigirata che nessuno ci capiva più niente.
Ma alla fine ci siamo stati tutti, e il pubblico, e il violoncello, e l’insolito piattino di taleggio e cachi della Divinacomida, e grazie alla poesia di Francesca Genti,  Manuela Dago e Paolo Gentiluomo, a Roberto Deangelis, a Patrizio Luigi Belloli, alla recitazione di Camilla Barbarito   e di Pasquale Conti, alla musica di Giangilberto Monti, Alessio Lega, Balen’ Arrubia, Matteo Passante, Cesare Livrizzi, agli accompagnamenti di Fabio Marconi e Guido Baldoni, e il gruppo Monteforte, Tripodi, Viganò,  Minguzzi sempre disponibile a coccolarci  mirabilmente con le loro note. Ma grazie davvero!

Verso il Carroponte

Laura passa a prendermi sotto casa, l’aspetto al semaforo, così salto su e via, verso il Carroponte, dove Guido Catalano declamerà poesie – o farà il cabarettista, a seconda che lo ascolti un cabarettista, o un poeta.
Come decido che è meglio aspettarla dall’altro lato del semaforo, Laura arriva e si ferma giusto dov’ero due minuti prima, si ferma anche perchè c’è il semaforo rosso, e questa è già una buona cosa che non è detto si ripeterà sempre. La vedo, ma lei agita le mani e spiaccica i palmi contro il vetro,  le faccio un segno, riattraverso, la raggiungo, mi siedo in macchina  e lei mi dice ridendo: “ti stavo facendo segno di aspettarmi l! “…” e io ho capito di venire lì, vedevo segni strani”  Il finestrino è completamente giù, no, non mi dà fastidio, solo che Laura mi caccia in mano un navigatore, che non so come riesco a far sì che prediliga la direzione Sesto S.Giovanni, probabilmente era già impostata,dall’ultimo utilizzo, invece dei WXZ che mi scappavano digitati.  L’aggeggio parla, ma mica si sente molto quello che dice coi finestrini aperti, e così comincia il viaggio, con me che faccio la ripetitrice  del navigatore, ci dice sempre dove andare, ma tante volte ci sembra che sbagli, e allora facciamo qualche altra strada, in conflitto  con lo strumento, che non si arrabbia mai. E’ incredibile! Siamo arrivate! “Il Carroponte,  lo vedi? ” Mi dice Laura. Vedo infatti una strisciolina di rosso dietro  a delle costruzioni. Postaggiata l’auto, ci entriamo, ci sono delle aiuole e queste gigantesche impalcature, nel mio immaginario carroponte mi faceva pensare a una specie di nave petroliera, ed invece dicasi carroponte un argano installato su un carrello o un paranco, ed un ponte costituito da una trave,  i cui usi più comuni .sono all’interno delle fabbriche e dei magazzini per il trasferimento di semilavorati e di prodotti finiti tra un reparto e l’altro o verso l’area di carico e scarico; vi sono anche carriponte destinati all’uso siderurgico con funzioni di parco rottami, carroponte da carica o per movimentazione billette: così in sintesi da  Wikipedia.   Lì effettivamente c’era la Breda. Un attimo di commemorazione compunta. Gli operai, la fabbrica, le considerazioni sull’adesso.C’è una prima parte coperta, escono voci e musica, ma costeggiando la costruzione color infuocato, si arriva al prato, a un gazebo dove si sta esibendo Andrea Cola, e alla base di un pilone è seduto solitario il Poeta, con fogli bianchi tra le mani, che aspetta le ore 22.00, che sono anche passate. Il prato è occupato da tavolini e da divanetti fatti con  pallets, e assi per schienali.  Non ce ne è uno libero.  Laura segnala la panca lontana, occupata da un solo individuo. Che però si alza. La panca è libera! con passo felpato e velocissimo ce ne appropriamo.  La spostiamo in centro, sul  fondo. No, meglio che andiamo un po’ più avanti.
Ci sediamo. No, un po’ più a destra adesso. Ora c’è Catalano nel gazebo, implora che la gente vada più vicino al palco, obbediscono in tantissimi, il prato si è riempito, e noi.. zac, là vicino con la panca. E poi che dire? l’aria era fresca, si stava bene, Guido Catalano ha dato il suo meglio tra foglietti svolazzanti , e, per il veloce ritorno nella notte,  come  cavalli verso la stalla, il navigatore l’abbiamo lasciato dormire nel suo angolo

Evento con sottotitoli.

Il I Festival della letteratura di Milano,  è nato da un’idea che riguardava gli scrittori italiani “d’altrove”, che poi si è via via estesa,  e questo non saprei dire se sia stato  un bene o un male: in un territorio dove allignano movimenti tipo la Lega, e dove gli stranieri, comunitari e non, sono numerosissimi,  porre l’accento sull’unità culturale, o  condivisione che sia,  non nuoce certo all’ambiente.
Ieri sera, organizzata da Torno Giovedì  in uno dei posti più belli di Milano, lo dico sempre del Vanghè, si è parlato del libro di Francesca Bettelli, il suo primo,  La fabbrica dei fantasmi, Gaffi Editore.
“Mia sorella non mi crede, ma io l’ho vista.
Era un treno come gli altri scuro silenzioso nessuna scritta…poi eccola, una mano infilata tra una fessura delle assi. Senza vita.
Non riesco a dimenticarla.
Continuo a vederla.
Perchè portano i bambini alla fabbrica?”
Un libro di voci, voci senza un nome, in un posto senza un nome, che si sa dov’è, ma potrebbe essere ovunque, nella nostra vita quotidiana, frenetica, nella quale anneghiamo i nostri fantasmi. Potrebbe succedere ancora, succede tante volte, e non ce ne accorgiamo…l’indifferenza, la paura, il nostro orticello.  Dire “Il Re è nudo”
Questa cosa delle voci mi ha ricordato il buio, ed il tintinnio nel museo ebraico di Berlino, e lo spiraglio di luce lassù.
Ma in questo libro, che leggerò, le voci sono altre, quelle di chi vive intorno alla fabbrica, e di un militare, e di un fantasma:  Margherita Remotti ha interpretato il ragazzo, la ragazza, il militare, con il solo ausilio della voce, di una sedia e di un tavolo, cambiava la scena, ci catturava.  Frasi semplici, scandite che nel contesto dicono tanto di più, delle nostre scelte e delle nostre non scelte.
Un vibrante Fernando Coratelli, ha introdotto le letture, e il dialogo con l’autrice.
I frequenti applausi erano sottolineati  dal leggero abbaio di NicolaTesla, un giovane carlino, che ha pensato bene di sottotitolare con ringhio moderato alcune parti della lettura, ma occorre dire che con argomenti di tale tensione emotiva,  un sorriso non ci stava male.

Bianco Bric

Stasera, al Vinodromo di via Salasco 21, la mia prima dose di Festival della Letteratura di Milano, dove ho potuto rendermi conto di quanto  poco conosca le liste dei vini, ma secondo me le fanno complicate apposta, per dare un senso all’essere enoteca e non bar. Per forza, ci devono essere nomi sconosciuti ai più.  Perfino la macchina per il caffè è scostata rispetto al bancone, quasi Cenerentola, e chissà il latte, dove lo celeranno.
Così ho ordinato un Bianco Bric, perchè mi ricordava il nome del cane beige ed ispido  della ragazza di tantissimi anni fa di un amico  del capofamiglia.
E poi, non sono stata attenta a ordinare, insomma, è arrivato il vino solo, senza  neanche un cicinin di grana, o un’oliva da rincorrere.

Eccoli!

Il gruppo letterario è affiatatissimo, Luigi Carrozzo ha presentato Fernando Coratelli, Sergio Garufi, Franz Krauspenhaar, Marco Rossari ed i loro libri, Quando il comunismo finì a tavola, Il nome giusto, Le monetine del Raphael, L’unico scrittore buono è quello morto.
Per quanto riguarda i libri, di questi ne ho letto per ora solo uno, e quindi se volete accattatevilli, eccerto che vai ad una presentazione  e ti viene voglia di leggerli.  Anche se a dire il vero qualche volta, non questa, mi è successo di pensare “quel libro non lo comprerò mai”.
Volevo spendere due parole su questo Primo Festival. La parola Festival per me è molto abbinata al mondo della musica.  Quando non si tratta di musica, Festival mi evoca gli sconti dell’Esselunga, Festa del Maiale, Festa dell’Uva, o, in gennaio, Festa del Bianco, che non era perchè cadeva la neve ma perchè c’erano gli sconti sulla biancheria di casa.  Però, al momento, non ho un’alternativa da suggerire.
Spero che questo Festival riesca, per tutta una serie di motivi.  Intanto, è nato dal “basso”, cioè non da un’iniziativa imprenditoriale dei grandi editori, ed hanno collaborato un sacco di volontari. Il Comune non ha stanziato fondi, si vedrà l’anno prossimo.  Milano è piena di piccole iniziative culturali, poco pubblicizzate, magari questa manifestazione risveglia un po’ di attenzione: ricordo per un paio di anni, 2009, 2010, una sorta di piccolo Salone in via Tortona, in ottobre, ma nel 2011, che ci sia stata o no, non mi sono accorta.  Insomma, la cultura non sono solo le grandi case, i grandi nomi, i grandi teatri, occorre prenderne atto  e dare  la possibilità di sopravvivere anche ai piccoli e medi, e la grande Milano ha il dovere di concedere spazio,  questo Festival ci deve, ci dovrà  essere.
Ecco, dicono che Milano imita Mantova. Non so, di Mantova ho sentito dire, non ci sono mai andata, sono stata a Torino e Belgioioso.  Mantova certo ha il vantaggio di essere più raccolta, rispetto Milano, però non mi sento di giudicarla, questa manifestazione, che è solo all’inizio, e mi sembra, come esordio, già abbastanza ricco: è alla fine, che si tirano le somme, e  su queste si elaboreranno nuove idee.

Salone del libro – pre.

Anno quarto, cosa mi aspetto? cosa ho imparato?
Innanzitutto,  non esiste scarpa che non diventi indisponente prima del retiro in B&B.
Più le ore passano, più le code ai wc si allungano.
Visti gli ospiti del programma, quest’anno  Saviano non c’è,  invece un Gramellini al giorno sì.
Se pensi di andare ad ascoltare la Littizzetto, Arisa, Vergassola e così, in uno spazio di quelli chiusi,  scordatelo, è inutile che ci vai, sicuramente ci sarà una tale ressa fuori  da quella porta che non arriverai in tempo ad aprirla prima che finiscano, entrerai quando gli altri escono, e assisterai alla performance successiva.  Se invece vedrai quella folla senza avere il programma sottomano,  ti chiederai se è successo qualcosa, e magari non lo saprai mai, perchè non vedi niente, sono coperti dalla gente in coda anche i cartelli.
Il passo successivo è chiedersi : Ma non era Il salone del libro questo?
In ogni caso, è il Salone del libro, ma  si può anche definire come multimediale, dal momento che sono presenti musica, televisioni, giochi virtuali e anche Green Peace, e come canto delle sirene, l’editoria a pagamento ti insegue distribuendo volantini per i corridoi.
L’anno scorso sfilavano anche i santi, mi pare fosse San Precario, che secondo me la processione c’è anche quest’anno.
Per mangiare, c’è il Ciao, ristorante sopraelevato, caratterizzato dal fatto che tanti, riconoscendosi da un tavolo all’altro, si salutano con la manina da lontano.
Spesso ci  sono in mostra talune eccentricità, tipo il bicchierofono dell’anno scorso, non ho mai sentito parlare di concerti di bicchierofono per cui per me che sono ignorante resta un’eccentricità che può incuriosire  grandi e piccini, ed è giusto che ci siano queste cose ad attirare l’attenzione,  son certo più innocue di tanta letteratura.  Chi poi si porterebbe un bicchierofono a casa?
Visto che il titolo di quest’anno del Salone è Primavera digitale, penso che ci saranno molti dibattiti intorno agli e-books, , alle indirimibili questioni  L’e-book seppellirà il libro?   Come le case editrici fronteggeranno l’attacco e-book? Adeguandosi, spero. Faccio parte di quelli che non vedono  la contrapposizione. Il libro non può morire, ha una funzione e un’utilizzo diverso dall’e-book,  ed anche un pubblico diverso, per quale motivo non dovrebbero coesistere? Sono meglio i Beatles o i RollingStones?
E comunque, il Salone del libro di Torino mi piace tantissimo, per l’atmosfera da spiaggia,  mi spiace non essere mai andata a quello di dicembre a Roma, e penso sia molto utile anche per quella editoria definita piccola, attirando tanti visitatori, cioè gente interessata ai libri accompagnata da collaterali  distratti che magari finisce che si incuriosiscano… pericolo, mica che si mettano a scrivere, no, no… servono lettori, si vede a occhio nudo, nel salone.
Con parsimonia frequento le presentazioni di libri, non mi dispiacciono, non sono quasi mai noiose, però non manco di rilevare ogni volta  che sono presenti gli addetti ai lavori, amici, amici di social network… più o meno quelli del giro, insomma, che il libro lo regali all’amico, o questo lo comprerebbe lo stesso per vedere se è più bello di quello che ha  scritto lui,   insomma non c’è un’espansione del prodotto verso il lettore “esterno”, accade, ma raramente.    Invece se sei presente allo stand della tua casa editrice, o parli del tuo libro davanti a una manciata di sedie, chiunque passa, magari si ferma, si ferma perchè sente qualcuno ridere, perchè coglie al volo una parola che sembra interessante, la tua faccia gli è simpatica…
In ogni caso, io vado al Salone di Torino perchè devo ritrovare il coperchietto dell’obiettivo della mia Lumix, che il salone è come il mare,  chissà quando e dove mi restituirà il suo corpo.

tiptop alle crociate.

Oggi pomeriggio nella Sala Bianca del teatro Parenti TornoGiovedì ha organizzato una sorta di incontro e discussione su problemi dell’editoria   #carilibri, in collegamento Twitter e Facebook tipo Tutto il calcio minuto per minuto, solo che  Sabrina Minetti è indubbiamente più avvenente di Nicolò Carosio.
Il titolo #carilibri, hashtag einaudiano, è stato scelto perchè si amano e perchè costano.
Introduce gli argomenti Fernando Coratelli, detto per l’occasione Floris – tra i due quanto ad avvenenza è  invece un bel match – riferendosi ad un articolo apparso sul  Il sole 24 ore di Giorgio Fontana (non l’ho letto nè ne conosco il link),  che riporta come nel 2011 siano apparsi in e-book circa 20.000 titoli e siano stati venduti una quantità che non ricordo di e-reader,con un’ulteriore prevedibile impennata nel periodo natalizio, raggiundendo la cifra di circa 800.000 e-book, calcolati per eccesso, in medio stat virtus. In una sola settimana del 2011 sono usciti tanti libri (cartacei) quanti in tutto il 1950.  E da qui si è partiti con numerose considerazioni  anche squisitamente tecniche, ma non solo.
Innazitutto c’è da chiedersi se non sia eccessiva l’offerta di libri rispetto alla domanda, e questa è una cosa che mi chiedo anche io tutte le volte che entro al Salone del Libro di Torino.
Si considera come la classica filiera dia una garanzia di qualità: cioè l’opera dello scrittore viene editata, curata, pubblicata e distribuita al momento giusto e con la copertina giusta. Successivamente, sul discorso qualità si è tornati, dicendo che non sempre il libro ha un contenuto “degno” solo perchè è lavorato, inoltre, anche l’editor è soggetto a sollecitazioni quali il dover riconsegnare in un breve lasso di tempo etc.
Si parla anche di un rischio di self-publishing in e-book, da parte di quegli autori che non si sentono presi in considerazione da case editrici, e magari hanno una grossa considerazione di sè, si autopubblicano, con o senza editing, certi addirituttura si sono scritti anche il saggio critico.
L’unico risparmio che l’e-book consente è la stampa su carta: diritti, editing, distribuzione, foto di copertina restano: sulla distribuzione resto perplessa.
Il problema grande dell’e-book, secondo alcuni piccoli editori, è la visibilità. Se un libro nello scaffale di una libreria può venir preso e sfogliato e scelto, per un e-book è difficile essere notato nel gran mare di Internet se non è nella prima pagina delle offerte di case editrici o centri commerciali (su questo, mi permetto di dissentire, come si guardano gli scaffali, uno può anche guardarsi i cataloghi su internet: questione di abitudine, conosco chi lo fa). Alcuni librai presenti chiedono che il lettore sia libero di comprare quello che vuole e dove vuole: le librerie delle grandi case soffocano i librai indipendenti, che rivendicano anche un loro ruolo nelle scelte  e nel suggerire le letture ai clienti che chiedono consigli. Nella classifica di vendita degli  e-book i primi tre titoli coincidono con il cartaceo, gli altri sono testi che non riuscirebbero a essere pubblicati in carta (questo mi sembra una buona cosa), ma i  piccoli editori temono l’ingresso dei grandi nella pubblicazione digitale.
Un autore rileva che da quando legge in internet, la sua capacità di concentrazione nella lettura è diminuita, tra testi e collegamenti, ha difficoltà ad arrivare in fondo alla pagina, e questo sta accadendo anche sulla carta.
Viene fatto cenno alla difficoltà a reperire libri di poesie in vendita, segnalando che alcuni blog tematici  mettono a disposizione l’e-book, ma qui si metteva in guardia sulla qualità (però, uno compra l’e-book avendo letto in blog, quindi lo conosce e gli piace), in alcuni blog esiste una redazione che li cura, in altri no.
Emergono anche problemi tecnici, se ho ben capito, ci sono device che van bene con tutti gli e-books ed altri con solo quelli del proprio marchio, e ci sono standard per Android, Amazon etc, ed è difficile raggiungere uno standard che vada bene per tutto.  Ci si chiede se siano uno strumento alla portata di tutti, dal giovane all’anziano, e se non sia lo scrittore stesso a smorfiarsi di essere pubblicato in digitale anzichè rilegato in cartoncino.
Insomma, i toni erano un po’ come se ci fosse una sfida tra il libro di carta ed il libro digitale, e si osservava infine come fossero due cose diverse, destinate, con ogni probabilità ad un mercato e a un utilizzo diverso, e possono benissimo coesistere:  difficilmente nella nostra generazione assisteremo alla morte del classico libro (poi, io ti voglio vedere andare in spiaggia con l’e-book, tra sabbia e sole a picco… semmai in autobus, può esser comodo) nel futuro più futuro si vedrà: certo non possono sparire i libri per bambini, e credo neanche certe edizioni d’arte, e gli e-reader di e-book di ricette avranno lo schermo schizzato di uovo zucchero e farina, come le ditate sulle pagine dei libri di cucina.
Di mio pensavo, quale lettrice, che bello, tutte queste persone lavorano per me… io sono l’utilizzatrice finale. Ho trovato solo verso la conclusione dell’incontro  il coraggio di partecipare alla discussione, raccontando che ho dei libri da sempre, mentre la videoteca che mi ero fatta con i VHS ho dovuto buttarla via, e anche le musicassette,  avevo un blog e mi hanno chiuso la piattaforma,  insomma bisogna tener conto dell’innovazione tecnologica  del mercato, non spendo per un e-reader e gli e-book che poi mi cambia la tecnologia e non li posso più usare. Secondo me occorre andare oltre a questi due strumenti, e poter scaricare, magari a pagamento, da internet sui propri aggeggi in uso, senza mille tecnologie diverse, poi, chi vuole i libri i carta, prenda i libri di carta. E’ vero che fanno così per obbligarti a comprare, ma non ci casco più. E la diminuzione di costi ci sarebbe, perchè  lasciamo i diritti agli autori ed agli editori, si risparmia in carta e distribuzione, intendendola sia come percentuale ai distributori, che nel senso di merce viaggiante.
Alla conclusione dell’incontro, è stato offerto l’Happy Hour Book, secondo il rituale di TornoGiovedì, con vino buono, ed alla presenza di Cappuccetto Rosso e del Gatto con gli Stivali.

Impressioni Sanremose.

Confesso… mi sono piazzata in cucina col pc, un occhio al pc, un occhio alla tv, magari anche un orecchio, trattandosi di Festival della Canzone.
Goran Bregovic schiocca le dita alla sua orchestra, ha un piglio da domatore con i suoi leoni, ma  Romagna mia non gli si addice, credo si addica a ben pochi.
Le rughe sono dappertutto a Sanremo, a Morandi gli hanno invaso anche la voce.
Al Jarreau non l’avevo mai visto, e mi ha lasciato un’impressione dolcissima, non tanto per il canto, era la canzone del Padrino, “Parla più piano”, alla canzone non ci facevo più tanto caso, guardavo quest’uomo, come si muoveva, attentissimo, con una quasi  timidezza, come si appoggiasse appena a terra,  ed aveva un tale sorriso, che sembrava venir da un altro mondo, che non c’entra  niente con lo spread e moody’s e l’art. 18 e i bunga bunga.  Forse è un angelo, che mica debbono essere sempre con capelli riccioluti in una profusione di azzurri e di gialli oro.
Credo che con quelle luci che partono con la musica, tempo dieci  minuti mi verrebbe la frenesia di levare le tende.
Ora Lucio Dalla, si è seduto al piano, e non lo si vede più. Mi viene in mente il mio amico di secoli fa, Glauco, a Chiavari, che era bassissimo e aveva una mini minor, e quando vedevamo arrivare una Mini vuota, era lui.
Morire che mi ricordi il nome di un cantante o un titolo per più di trenta secondi.
Questa serata mi sembra più ordinata della prima, meno fumosa, mi sembra meno anche l’invasione pubblicitaria.
Che il Festival delle rughe continua, ma Patti  Smith è Patti Smith, e anche Because the Night e poi le rughe mica bisogna vederle negative, sono solo un segno del tempo, come la corteccia degli alberi.
A volte, il viso invecchiando avvizzisce, ma nel reticolo di rughe gli occhi continuano a brillare, la bellezza non lo abbandona: ci sono visi che diventano invece maschere deformi, saranno forse persone che non si sono volute bene.
Per esempio Loredana Bertè, che non so se ammirare per la tenacia e il  dolore intrinseco della sua persona.
E comunque, il Festival, importa per la musica, mica per le manfrine, e stasera è stato gradevole, e poi non c’era il sermone, che veramente, anche quello ormai sembra di un altro pianeta, e non  lo stesso pianeta di Al Jarreau.
Irene Fornaciari ha la voce vuota, ma forse dovrei sentire qualche cosa d’altro di suo, o di altro genere.
Stasera è stato bello probabilmente perchè non erano canzoni per Sanremo, che quando le ascolti pensi che non si può più scrivere nulla di nuovo, le ascolti e le senti stentate, tipo   si son seduti lì al tavolino,  ora componiamo: (proprio con i due punti) non lo dicono, ma c’hanno due dadi,  con scritto amore cuore braccia labbra cielo pioggia gelo ruvido lontano pensiero lasciato  piccioni. Qualche volta una canzone riesce, e spacca.

Appropriazione indebita di compleanni altrui.

Una vera calamità si abbatte  sulla nostra famiglia, subito dopo le feste natalizie, comprese Befane e Capodanni: la serie dei compleanni.
Mio figlio nacque un 9 gennaio, mia madre un 20 gennaio, un mio nipote figlio di una sorella il 22.
Ora, quella che tiene a festeggiare, è comprensibilmente mia madre, che sta giungendo al  98° compleanno, e nonostante siano così tanti, ancora non si è stufata delle torte con le candeline, senza pensare che a mettercele tutte, una torta di calibro normale si sfracella, e  come fossero un falò, alzano di un grado almeno la temperatura della stanza.
Insomma, non stavo ancora mettendo il piede fuori dal Capodanno che arriva la domanda della mamma: “Cristina poi dobbiamo pensare cosa fare per il compleanno mio e di Lorenzo, che tanto vale che lo facciamo insieme”
Come postulato, abbiamo dunque che Lorenzo desidera festeggiare il compleanno con quello della nonna.
“Pensavo che potevamo affittare una saletta al Tagiura come un tempo” personalmente odio le celebrazioni in ristoranti e affini, con tre bambini piccoli in famiglia, per loro è una tortura e poi lo diventa per i genitori. E anche per me fare la forzata della tavola.
La mia risposta è stata diplomatica “Non so mamma, devi sentire non me ma l’altro interessato, cosa gli piacerebbe fare, poi si vede”
E me la sono data a gambe, tre giorni a Pallanza, finalmente un po’ di pace e di tempo per me, che tra lavoro, famiglia e pranzi, il periodo di Natale era stato, come spesso è, uno stress e basta.
Nel frattempo arriva una mail del nipote, che mi dice che, costretto a festeggiare suo malgrado, gli andava bene, anche per le bambine, il sabato 21 mezzogiorno, e propone un paio di posti: scoperto casualmente che mio figlio era arrivato a Milano mentre ero al lago, Marco mi dice che non sa se ci sarà, che però nel caso gli andrebbe benissimo il sabato o la domenica  mezzogiorno,  suggerisce un altro posto.
Mentre sono occupatissima a lanciare il pane alle papere del lungolago, mi telefona mia madre, piangente perchè il suo compleanno lo vuole alla sera e al mezzogiorno allora non invita nessuno; quando torno a casa trovo una mail di mio nipote che mi chiede come mai non ho scritto anche a mio fratello, e gli spiego che ho risposto alla sua, di mail, e che lui non aveva scritto a  mio fratello, suo zio, e gli rispondo allargando allo zio.
Lo zio, simulando lo zio d’America, risponde:  ditemi solo quanti siamo, e ci penso io a organizzare; i nipoti accettano il sacrifizio del sabato sera. Ha detto organizzare, non ha detto pagare, e tremo un po’, ma solo un pochino.
Tralasciamo il ballo dei numeri dei partecipanti, e veniamo agi ultimi fatti.
Apprendo domenica sera da mia figlia, poco prima di ripartire per Milano, che mia madre sua nonna è furente con me che sono una madre degenere: domenica lei ha deciso di festeggiare il compleanno di Marco, che non voleva festeggiarlo, ha comprato una torta, ed io non c’ero!!!!! Mancavo al compleanno di mio figlio! quel mio figlio ch avevo sentito il giorno prima e non voleva festeggiarlo, e che per quanto ne sapevo quando sono partita  per il lago, avrebbe dovuto restare a Ginevra, mica venire a Milano.
Lunedì, mentre ero al lavoro, sento mia madre al telefono: acida e rancorosa, mi dice “Avrai assaggiato la torta avanzata che ho comprato io ieri, che tu non c’eri, a casa,  per il compleanno di  tuo figlio”; in tarda serata  sento invece mio fratello,  e tra le altre cose gli ho chiesto se gli era venuta qualche idea su dove fare ‘sti compleanni della nonna e del Lorenzo, e lui tutto incazzoso ” Della mamma,  di Lorenzo e di Marco, a me è stato detto di tutti e tre dalla mamma, e si festeggiano tutti e tre”.

Ma a me, questa storia, mi sembra una tortura…anche una s-tortura, a dire il vero.

Non penso ci sarà davvero la fine del mondo, il 21 dicembre 2012,

la morte del mondo potrebbe avvenire in un qualunque giorno, come la nostra, e potrebbe essere preceduta da una lunga agonia, e qui forse ci siamo.
Leggendo qua e là, la fine del mondo profetizzata dai Maya consisterebbe solo nella fine di un ciclo del loro calendario, sicuramente più corposo del nostro Capodanno, e parimenti  festeggiabile.
Quello che potrebbe in realtà accadere, il prossimo 21 dicembre, è che forse si potrà andare tranquillamente in centro città senza la consueta ressa pre-natalizia: pare infatti che ci siano i soliti furbi che affittano o vendano posti in bunker e i soliti furbi che si premuniscono,  quindi  potrebbe darsi che il prossimo anno il Natale venga da molti festeggiato insieme alle talpe, Tegucigalpa nomen omen.
Se entri in un bunker temendo la fine del mondo, e pensi alla legge di Murphy, non ne uscirai più, neanche se ti giurano, da fuori, che non è successo niente.
Io, che sono per di più un ciccinino claustrofoba, non penso di dar retta alle dicerie: la fine del mondo, non me la immagino come potrebbe essere…  forse le acque irromperanno,  le montagne si sgretoleranno, e le forme viventi verranno  travolte, tranne i grattacieli in bambù?
Ma questa non sarebbe la fine, sarebbe un cambio di geografia, per finire davvero il mondo dovrebbe dissolversi, e io non vorrei viaggiare per sempre nello spazio (sempre che non finisca anche quello, fine del mondo, inteso come Terra o come Universo?) nella mia indistruttibile bomboniera  bunker, magari autoasfissiandomi con fagioli in scatola.