Quando tornavo a casa da scuola e c’era il vassoietto della pasticceria sul buffet in sala da pranzo, sapevo già che era giorno di canasta, era il turno di mia madre per ricevere le amiche.
Il salotto doveva essere in ordine, la mamma preparava in cucina il carrello per il the, pronto per l’ingresso trionfale, con le tovagliette di lino ricamate da lei o dalla nonna Bice, ed il servizio da the di Villeroy & Boch di porcellana, blu, con disegni agresti di mucche e fienagioni, e i cucchiaini d’argento, io rubavo un bacio di dama.
L’Angela doveva mettere il grembiulino bianco con la pettorina sopra il grembiulone
Stavo attenta al suono del campanello, perchè capitava mi portassero una scatola di caramelle, soprattutto la signora Ambrosoli, ed era abbastanza ovvio che fossero quelle con la carta gialla, al miele.
Le amiche della mamma che si vedevano più di frequente per casa erano la Ilde, romana e abbastanza signorile nei modi, a me era simpatica, credo di averla vista sempre con i capelli argentati e gli occhiali, molto curata. Secondo la mamma era una che si dava un sacco di arie, secondo me era semplicemente una donna intelligente. C’erano poi la Clelia, di famiglia napoletana e la Wilma, milanese, ed un po’ urlona. Per la mamma, l’unica qualità da consierare era che giocassero svelte, il resto era di poco conto.
La Clelia ad un certo punto era scomparsa perchè, venuta a Chiavari un anno in vacanza perchè c’era mia madre, alla fine si è trasferita a vivere lì, e mi dicevano sempre come era bello suo figlio Renato, ed io rispondevo che sì, era un bel ragazzo, e che anche la sua tipa Patrizia era molto bellina. Clelia decantava sempre il suo coniglio al cioccolato, ed una sera finalmente ci ha invitato, i miei genitori, mia sorella e me, e tutti si sono detti entusiasti, anch’io, per non essere da meno, ma me lo ricordo come un piatto di cui non mi era importato nulla, non era stata ‘sta gran scoperta. Forse, lo avevamo pensato tutti, ma non lo saprò mai, e se nominassi oggi il coniglio al cioccolato della Clelia alla mia vetusta madre, mi direbbe prima “Che coniglio?” poi ci ripenserebbe e direbbe “ma no la Clelia ti avrà regalato un uovo”.
La Wilma aveva il suo caratterino, insomma, per uno scarto sbagliato dalla sua compagna di squadra venivano fuori delle liti e per un po’ c’era un dissidio insanabile; finchè non si rappacificavano, il tavolo a quattro doveva essere ricostituito con abili tecniche e strategie degne di un coach sportivo, ricoinvolgendo senza vergogna amiche più lente defenestrate tempo prima dal tavolo. Wilma aveva anche uno zio rappresentante di cravatte firmate, così per un paio d’anni abbiamo regalato cravatte e sciarpe a tutti per Natale, e comunque si dava da fare con lavoretti tipo le interviste, ce le faceva, anche a me che non avevo problemi di bucato, e poi arrivava con i detersivi omaggio. E’ rimasta vedova in un modo pazzesco, il marito è morto di colpo mentre era in auto fermo al semaforo rosso, e col verde non si è mosso. Credo sia una situazione veramente incresciosa, già il tuo shock personale, e poi le macchine che ti suonano e insultano ferme in coda dietro, e certo non possono immaginare. Non so cosa farei. E’ anche vero che in certe situazioni ti viene una forza che non ti sei mai accorta di avere.
Insomma, queste signore monopolizzavano il salotto, dove c’era anche la televisione, le sentivi gridare, o gioire, e quando si apriva la porta per l’ingresso del the, le vedevi avvolte nella nuvola del fumo delle loro sigarette.
E non potevano nè ammalarsi, nè morire, perchè la mamma ne faceva un fatto personale.
Archivio mensile:marzo 2012
Il Gianni e la Francesca, il Merico, la Mirella
Alla mattina, fatta colazione, stavo attenta se sentivo arrivare l’Ape del Gianni, al rumore del motore si aggiungeva di solito l’abbaio della Gin, la bassotta di mia cugina, che non lo poteva soffrire. D’altra parte, il Gianni aveva un’aureola di capelli bianchi, non aveva più i denti davanti e girava con la maglietta ecrù melange a costine. Se riuscivo a cuccare il Gianni che scaricava la spesa, mi arrampicavo nel cassone e mi facevo portare su per il viale sino alla Dependance, che io tengo a scrivere rispettosamente con la maiuscola.
La Dependance era una casa staccata dalla villa, destinata, ai tempi d’oro del nonno, come alloggio per i domestici. Vicino c’era appunto la casa del Gianni e della Francesca, l’officinetta del Gianni, l’atelier abbandonato della zia Liliana, il garage, il fienile con le gabbie dei conigli, ed il cancello che dava sulla “strada alta”, la chiamavamo così noi per distinguerla dalla provinciale lungo il lago, lungo la quale arrivavi sino a Baveno, anche sino in capo al mondo, se non ti fermavi a Baveno. In quell’universo, la casetta del Gianni e della Francesca era vicina al cancello, ed io stavo spesso lì dentro a chiacchierare con la Francesca, che preparava il pranzo per il Gianni, che avrebbe mangiato da solo, lei doveva poi venire nella villa per occuparsi della cucina. La Francesca aveva i capelli, grigi e increspati, sempre legati a crocchia dietro la nuca, la pelle liscia, occhi azzurrissimi, ed era molto contenta quando veniva il Merico, suo figlio, che lavorava lontano, lontano per quei tempi, poteva essere verso Domodossola. Io non capivo tutto questo entusiasmo, perchè il Merico lo vedevo o che mangiava, o che stava sul divano, e poi andava a caccia. Anche il Gianni, il giardiniere, andava a caccia, mi ricordo le cartucce rosse e il fucile, e la Francesca mi raccontava della frollatura delle lepri, argomento che mi prendeva poco. La Mirella non andava a caccia, era molto signorina, con i capelli neri e gli occhi azzurrissimi, più di quelli di sua mamma e dei miei; probabilmente lavorava anche lei, perchè non la vedevo spesso in casa, comunque più spesso del Merico. Merico, da Amerigo, come l”America, mi diceva orgogliosa la Francesca. Nel complesso, li avevo adottati come seconda famiglia, e passavo molto del mio tempo con loro. A lato della loro casa c’era il fienile, e con mia cugina Ambra, di qualche anno più grande di me, facevamo le capriole, senza timore nè di topi nè di niente. C’erano le gabbie coi conigli, e passavo loro l’erba attraverso i buchi della rete, e quando nascevano le cucciolate, sceglievo sempre il mio, mio in senso spirituale. A lui avrei cercato di far arrivare più fili d’erba che agli altri. Legato ad un filo di ferro teso tra il fienile e la casa, lungo il quale scorreva la sua corda, stava il Cris, un grosso setter bianco e rossiccio, che accarezzavo tanto, e per giocare dilaniava quotidiani, ed io ridevo, ridevano anche il Gianni e la Francesca perchè dicevo che il Cris sapeva leggere. Quasi una profezia sulla stampa, la mia, rivista oggi. Non poteva mancare il gatto del Gianni, che a dire il vero cambiava spesso. Ma la cosa più bella era andare nel laboratorio del Gianni, dove c’era di tutto, anche la morsa, e soprattutto la mola, che facevo girare al’impazzata, divertendomi a sentire le cose che si scaldavano, e via ad arrotare chiodi. Il Gianni lo seguivo anche quando andava a tagliare l’erba dei prati della villa, lui dava di falce ed io di rastrello. Lo seguivo anche a raccogliere le dalie e i pomodori, ed a prendere il capelvenere nella serra.
Certo, stavo via ore, e nella villa nessuno sembrava preoccuparsi, solo una volta mi hanno sgridato perchè mi chiamavano e non rispondevo, ma glielo ho detto, non sapevo come fare, il gatto del Gianni mi si era addormentato in braccio.
La sala da pranzo.
La sala dove si mangiava la prima colazione non sembrava sempre grande uguale, cresceva durante il giorno, raggiungeva il suo massimo all’ora di cena, dopo di che si riaggomitolava aspettando il mattino.
Il tavolo del mattino era quadrato, con la tovaglia, il Nescafè e lo zucchero in zollette. Per il the ci voleva il colino, le bustine credo dovessero ancora essere inventate. I biscotti erano nella scatola, e le fette biscottate erano rotonde e disgraziatissime, pronte a sgretolarsi come una colonna cariata, spalmarci sopra un po’ di burro e marmellata ti dava la stessa suspence di una partita a shangai, quando vuoi prendere il nero senza muovere.
Sul tavolo per me erano sempre pronti i fermenti lattici Fides, una deliziosa medicina in fialetta da consumare con acqua e zucchero: poi mi restava il tappino di gomma con cui giocherellare, e qualche fialetta la tenevo perchè facesse da bottiglia per le bambole. Non che avessi un grande spirito materno, alle bambole cucinavo piatti di riso con i petali delle margherite, tutt’al più spazzolavo e tagliavo i loro capelli, e dopo, non le spazzolavo più.
Insomma, al tavolo per la colazione si arrivava alla spicciolata; una mattina lo zio Fulvio, seduto di sbieco col Corriere tra le mani, mi disse “E’ morta Marilyn Monroe” e la cosa colpì anche me, che si muoia giovani e bellissime. Così avevo anche un po’ letto una rivista, poco tempo dopo, dove dicevano che Marilyn Monroe fosse un’amante, e mi pareva una cosa un po’ spaventevole. Non era facile essere attrici in America, all’altra bionda, la Mansfield, un leone aveva azzannato il figlio, Zoltan, me lo ricordo, il nome stesso da leone.
L’ultimo a svegliarsi era il Luca, mio cugino, la tavola doveva essere preparata per il pranzo e lui non aveva fatto ancora colazione, così dalla terrazza sotto la sua finestra, per non fare le scale, lo si chiamava ripetutamente, fino a quando rispondeva malevolo e impastato di sonno.
Per il pranzo il tavolo si allungava, e per la cena era ancora più lungo, credo non fossimo mai meno di una decina, e spesso molti di più. La Francesca cucinava e raramente si faceva vedere, mentre era la Piera a servire a tavola, facendo non so quante volte su e giù le scale per la cucina. Ricordo riso e latte, mondeghili, patate al latte…. ognuno aveva la sua busta per il tovagliolo, e un’altra per il cambio, con il nome ricamato dalla zia Bruna, un lavoro evidentemente terminato prima che io nascessi, perchè quelle col mio nome non c’erano e potevo scegliere tra le buste generiche, per gli ospiti, con ricamati pulcini, coniglietti ed elefantini.
Che sia da lì, dall’essere senza la busta portatovagliolo col nome ricamato, che abbia cominciato a prendere forma la mia natura di cane sciolto? Però ho via io le buste delle mie sorelle, Orietta e Marisa, a loro non importavano, e adesso che non ci sono più nè loro, nè la casa, mai le butterei via, stanno lì, in un cassetto, ma sono lì.
La fontana con i ragni d’acqua – 1
La fontana dei gemelli sarebbe stata in bella vista dalle vetrate del salone, se la siepe di mortella non fosse stata lasciata crescere troppo. D’altra parte, il giardino della villa di Baveno era troppo grande per un giardiniere solo, il Gianni, e si sa che l’erba continua a crescere, come le erbacce nella ghiaia dei vialetti, e le foglie cadono un po’ tutto l’anno, e nelle fontane si crea la melma, le alghe. Anche nella cartolina, che avevo comprato in una tabaccheria di Stresa, il prato sembra tosato giusto per lo scorcio, un po’ di maquillage per fare la fotografia, suppongo, in una mezza primavera di non so quando, perchè si vedono fiorite le azalee che dividevano il prato da un vialetto. Se la memoria non mi inganna, dovevano essere di quelle coi fiori bianco-rosato, con nervature rosse, e rossi anche gli stami. Questo lato del giardino era quello meno frequentato, e ci stavo sempre con un certo timore, dovuto, penso, alla scarsità di compagnia che avevo, se non fosse stato per i miei cugini che ogni tanto vedevo, o il figlio di un’amica di mia zia, che però avevano la villa a Stresa ed a Vedasco, poco sopra. Eppure la solitudine non mi pesava, avevo sempre qualcosa da fare. La raccolta di farfalle, per esempio, sino a quando mi sono convinta che era una pratica crudele, e mi sono allora dedicata all’erbario: ricordo che papà mi aveva regalati un libretto, edizioni Martello, Fiori spontanei, devo averlo ancora da qualche parte. Insomma, era un lavorone riconoscere i fiori nelle riproduzioni, imparare che il fiore giallo che se lo raccogli poi fai la pipì a letto, non è vero che fai la pipì a letto e si chiama tarassaco, e che nel giardino, come niente fosse, avevamo la borsacchina. Ecco, papà sembrava l’unico che avesse piacere a stare con me, a parlare di tutte queste cose.
Avevo anche cercato di addomesticare una lucertolina, ma quando le si è staccata la coda che continuava a vivere di vita propria sul cuscino del divano, ho urlato e piangevo come una matta prima dallo spavento, e poi perchè le avevo fatto sicuramente male.
Passavo anche del tempo a guardare i ragni d’acqua nella fontana dei gemelli, che si muovevano a zig zag sul pelo dell’acqua, e restavano un fenomeno inspiegabile, pensavo che fossero un po’ parenti delle libellule, se ne vedevano spesso intorno a quella fontana, quelle azzurrine leggere, e quelle grosse, tipo elicottero verde metallizzato.
In panchina.
Al sole, ieri mattina, guardavo il lago, non mi pare di averlo mai visto così basso.
Le anatre erano pochissime, ed amoreggiavano inseguendosi in acqua, quelle rimaste dispari, suppongo, le altre, ufficialmente coniugate, saranno state a costruirsi i nidi. Ecco, una cosa che non so è se anche le anatre scelgono il compagno per la vita, o sono di liberi costumi come i cani e gatti. I cigni sono fedelissimi, credo che da vedovi non si risposino più, e mi pare anche gli svassi.
I piccioni erano attivissimi, alcuni intorno a un bimbo di un paio d’anni che li cospargeva di briciole, alcuni impegnati a gonfiare le penne pavoneggiandosi e ad inseguire passo passo la femmina prescelta, che fa la sdegnosa e se ne va, tallonata dal corteggiatore che fa un verso “brrtu brrtu brrtu” muovendo la testa avanti e indietro.
C’erano due motoscafi ormeggiati, sono arrivati i turisti, ordinati in fila per due si sono accomodati: tutti molto anziani, e una vecchissima che col bastone si muoveva appena, un’altra mentalità, si vede, quanti italiani nella stessa condizione penserebbero di andare a zonzo per il mondo? al massimo, si va dal panettiere vicino a casa. Forse, la tipa irriducibile era una globe trotter sessantottina. Poi i motoscafi sono partiti, verso le isole Borromee, io non so, stavo lì a godermi il sole,senza osare immaginare più nulla del mio futuro.
La nonna Bice e … – 4
“Mariuu” chiamava la nonna, seduta guardava in su, verso la televisione sistemata su mobiletto a colonna, scuro come tutti gli altri della sala da pranzo, la vetrina, il lungo tavolo, le sedie intorno, ed il buffet, ricoperto da un pizzo bianco. La nonna invecchiava spostandosi da una sedia all’altra, quando era pronta la cena poteva girare le spalle alla tivù e trovarsi seduta a capo della tavola. dove pretendeva che tutto fosse apparecchiato a puntino, era pur sempre moglie di un commendatore.
Quando lo zio Sandro era tornato per qualche tempo dal Brasile, dormendo da noi, la nonna dalla postazione tavolo rotondo del salotto si preoccupava quando lo zio doveva percorrere a piedi via Pallavicino, la lunga via alberata che grosso modo congiungeva la casa dei nonni alla nostra. Telefonava “Sandrino stai attento, ci sono gli alberi”, insomma, nella mente della nonna, dietro ogni albero poteva celarsi un assassino. Però, se l’assassino aveva la testa rotonda come Charlie Brown, lo si sarebe notato subito, pensavo io, già molto edotta in Peanuts.
Lo zio Sandro era una persona imperscrutabile. Abitava in Brasile, come gli altri due fratelli, mio padre era l’unico rimasto in Italia. Ignoro cosa li avesse portati dall’altra parte del mondo, lo zio Giannino, lo zio Gino, lo zio Sandro, se non fosse l’idea di fare affari, ma non mi pare che poi alla fine abbiano avuto questa gran fortuna; ho ancora un ramo di famiglia a Rio de Janeiro, del quale non ho alcuna notizia. Una cosa che contraddistingueva i tre fratelli era la bassa statura. Lo zio Gino era quasi imbarazzante per quanto fosse basso, con lo stesso naso aquilino del nonno e un paio di occhialoni, e qualunque altro nome certo gli sarebbe andato grande, Gino è di solo quattro lettere e già intrinsecamente un diminutivo. E’ sempre stato signorino, come lo zio Sandro, e per un periodo della sua vita è stato in Africa, era quello che mandava al nonno le lettere con i bei francobolloni colorati .
Non ricordo alcuno scambio con lo zio Gino, e quando mio padre e i nonni erano contenti perchè tornava, io dicevo “Ah!”, e credo di averlo detto anche quando ci è giunta la notizia che era mancato, in Brasile. Quando è mancato lo zio Sandro, ero adulta, mi ricordo che mi ero invece annotata la data, si sa mai, per lo zio Sandro avevo sempre la sensazione che qualcosa sarebbe uscito a sorpresa dal cilindro, in senso negativo, invece no, neanche in senso positivo.
Galleria (mi somiglieranno mica)
Buonasera, mi chiamo Infostrada.
Suona il telefono a casa nostra, risponde mia figlia, è solo giovedì.
– Michela, ma la mamma sta andando a Pallanza? – è mia madre
– Sì nonna, è a casa, te la passo?
-No no mi ha telefonato una cosa, mi sembra Infostrada, ma io non sentivo bene, credevo mi avessero trovato per il cognome uguale, pensavo che la mamma avesse avuto un incidente, e mi avvisavano, io ho detto che non sapevo niente, ma non capivo cosa dicevano.
Cuore di mamma.
Piccolo mondo antico
Soprattutto verso sera ho quest’impressione, di piccolo mondo antico, camminando per i vicoli di Pallanza vicino al lago, lastricati con beole e ciottoli, ed i rumori son quelli dei passi, qualche stridio di gabbiano, il suono di qualche campana. Le stradine non sono molto illuminate, i lampioni rotondi sono attaccati alle pareti delle case, così vicine che si guardano dentro dalle finestre. Alcuni portoncini di legno sembrano di quelli che non si aprono mai, e insomma, potresti anche incontrare uno zio Piero, con un mantello e un bastone.
La mia casa, cioè, la casa nella quale dispongo di una manciata di metri quadri, affacciata su una piazzetta, rientra bene in quest’amosfera, con il suo portone di legno pesante, il pavimento di granito lustro, e le scale di pietra, e i ferri battuti. Tre appartamenti sono occupati da inquiline anziane e sole – che io sia la quarta? – Al primo piano sotto di me, con il suo balconcino ridondante gerani, la signora Maria Botto. Vivacissima e disponibilissima, mi alzava il riscaldamento quando andavo, e senza che glielo chiedessi si è presa cura delle mie pianticelle sul terrazzino, senza contare il sostegno morale nel riciclo dei rifiuti, che a Verbania, di primo acchito, sembra complicatissimo, in realtà la complicazione sta solo nel fatto che quando sei lì solo nel week end, ti risulta difficile buttare il sabato mattina l’ “organico” quando ancora non hai sbucciato neanche una mela, ed ancora più difficile il martedì, che sei tornata al lavoro a Milano. Insomma, mi ha dato una mano in tutte queste cose, e ci accomunava la lotta ai piccioni concimatori che abitano in un pertugio del tetto di fronte, e così capitava che arrivando io trovassi delle girandole piantate nei vasi, o un’altra volta un po’ di bottiglie di plastica piene d’acqua disseminate sul balconcino; allo stesso modo si era mostrata perplessa della mia idea di mettere su un vaso un gatto di peluches dai begli occhioni espressivi, che gli mancava solo il miao, e infatti neanche quello aveva funzionato.
La signora Botto giovedì e venerdì non rispondeva al telefono, e sabato, arrivata, ho suonato alla sua porta, che non si è aperta, e non si sentiva la televisione. La felce vicino al suo ingresso aveva un’aria un po’ così, ed ho toccato la terra, era asciutta. Il ciclamino nell’androne, tra le edere, era riverso su se stesso e rinsecchito, aveva finito il suo ciclo, strano che non fosse stato sostituito da una pianta di primule, non poteva essere sfuggito alla signora Botto.
Poco fa ho provato a chiamarla, una voce ha risposto, maschile però…mi ha detto che la signora Botto non ci sarà più… no, non è mancata, ma è in rianimazione… i dolori alla schiena? era piena di tutt’altro, ha detto la voce, che ora brontolava, e non si è curata mai di sè, ha solo pensato agli altri. Ed io gli ho detto che non si poteva non volerle bene….
Era una di quelle persone alle quali non puoi rivolgerti senza sorridere. Chissà se quel parente lo farà, si ricorderà, riuscirà. a portarle il mio pensiero… l’aver bagnato, prima di ripartire, la pianta di felce, è stata l’unica cosa che ho potuto fare io per lei, non lo saprà, ma il fatto di saperlo io mi fa stare un po’ meglio, forse, se fossi stata pigra, non me lo sarei perdonato mai, mi sarebbe rimasto dentro tra le mie piccole vergogne.
La nonna Bice (e altre signore) – 3
In teoria, il nonno Mario, che ben poco ha della signora, non dovrebbe rientrare nella galleria, ma per gli uomini di famiglia si può fare eccezione, sono un gruppetto sparuto, e sarà forse per sopperire a questa carenza che ogni tanto mi pare d’essere un po’ uomo, in certi modi di ragionare, intendo. Il nonno Mario me lo ricordo piuttosto basso, col panciotto e l’orologio a cipolla, e la catenella d’oro. Aveva un grande naso aquilino, e poichè era anche banchiere, si era dovuto far nominare Cavaliere del Santo Sepolcro, un ordine cristiano, per non esser creduto ebreo, ai tempi della seconda guerra mondiale, così mi aveva raccontato mio padre. In ogni caso, all’epoca doveva esser fascista, perchè incontrava Mussolini, che gli affidava il risanamento di una banca, son cose che ho letto dai giornalini casalinghi che scriveva lo zio Sandro, che trattavano anche degli spostamenti di mobili ordinati dalla nonna Bice e delle classifiche dei tornei familiari di ping pong, cui trovava il tempo di partecipare anche il nonno. Di sicuro doveva esser stato molto ricco, ma a differenza della nonna, in vecchiaia si doveva anche esser reso conto di non esserlo più tanto, forse era per quello che con lui si passava gran tempo a vedere foto, cartoline, mi affidava le sue nostalgie, e la villa Ghirlanda di Cernusco, e la villa di Mazzè, quella dell’episodio della nonna coi partigiani. A proposito della villa di Mazzè, che non ho mai visto – la cicogna ha pensato bene di portarmi dopo il dissolvimento delle fortune familiari, un’altra bambina, quando volevano un maschio, per giunta – dai racconti dei miei fratelli sembrava fosse un immenso paradiso. Mi ricordo nei dettagli solo un racconto di mio padre, il nonno e il contadino avevano preso insieme al mercato due maialini, uno per uno, che sarebbero stati allevati a Mazzè, e quando gli si chiedevano notizie, il contadino diceva che gli spiaceva per quello del nonno, che restava così magro, mentre il suo cresceva così bene.
Tra le cose che raccontava il nonno, c’era che una volta eravamo marchesi, e che nel castello di Solza abitava on un nostro avo fantasma, Alessandro, che poi era anche il nome di mio zio suo figlio. “Il mondo è fatto a scale, c’è chi scende e c’è chi sale”, si vede che in famiglia siamo abituati al saliscendi, il nonno era figlio del capostazione di Inverigo, e non so bene quando e perchè nei secoli scorsi sia stato perso il titolo di marchesi. A proposito di perdere, il nonno aveva anche un sacco di fratelli e sorelle, non so se addiritura undici, forse solo sette. Mi ricordo qualche sorella, la zia Ada, la zia Cina, la zia Ninina: credo fosse la zia Cina che, perdendo a poker ad un tavolo di signore della buona società con la zia Ninina, puntò il maggiordomo Costantino, lo perse e lo vinse la zia Ninina. Spero di non aver invertito i nomi, perchè queste zie le ho conosciute molto vecchie, ed erano sempre entusiaste di vedermi, io invece non è che le distinguessi molto.
Ho fatto in tempo a conoscere il Costantino, anche se non so cosa penserebbe ora delle modifiche all’art.18, ma l’avo fantasma non ancora, sono andata a Solza a vedere il castello di Bartolomeo Colleoni, ma era giorno, e così non ci siamo potuti salutare.
E stanotte spero di dormire, che non mi venga la paturnia che il fantasma ha letto qui e adesso mi arriva, che c’è già il capofamiglia che russa con tutti i suoi clangori.
Funeral Planning
Mi sono svegliata stamane con dolori dappertutto, un senso di nausea, ma con la caffettiera più l’Oki più qualche spruzzo di qualcosarinilnaricil, alla fine ero quasi in forma.
Mica tanto però , è un po’ il morale che è esausto, emetto status del tipo ” Do ut des”, “Sono stanca di fare quella che c’è, comincerò col lampeggio” ma alla fine ho lasciato pubblico il solo dubbio se siamo ancora persone o siamo la pubblicità di noi stessi.
Non che fossi molto allegra neanche oggi, venendo in ufficio, pensando se fosse stato finalmente pubblicato il comunicato sindacale, la madre di tutti i comunicati, quello a cui ci dicono no e poi comincia la guerra, e la causa, e io starò male, che già mi chiedo se sia una sottile vessazione pianificata il fatto che ci manchi l’acqua calda nel bagno, che a me serviva per lavare bene gli occhiali. O che le due aree break siano in buona sostanza due serre, vetri anche come soffitto, senza alcuna tenda, che adesso che è solo l’inizio di primavera sorseggi la spremuta d’arancio strizzando gli occhi disabituati alla luce, e non esiste riparo, ombra.
Insomma uscita dalla metropolitana pensavo che non sto proprio bene, e che le mie sorelle sono morte non vecchissime, e magari toccherà così anche a me, ancora una decina d’anni al massimo, giusto il tempo di raggiungere la pensione, che mi sembra di essere l’asino con la carota. Non sopporto mia madre, che con la sua grettezza, dissipando anzichè lavorare, è riuscita ad arrivare alla sua veneranda età, 98 genetliaci, senza sciuparsi, ed io che ho la presunzione di voler far funzionare il mondo, sfasciata creperò presto.
Mi sono immaginata il mio funerale, magari ci sarà tanta gente e io non la vedrò neanche, e non potrò salutare nessuno.
Poi ho pensato che potrebbe essere un buon criterio per sfoltire gli amici di Facebook, chi verrebbe al mio funerale e chi no, e insomma che mi venisse un pensiero così assurdo mi ha fatto ridere da sola e mi è passata, certo che sono conciata bene.
La nonna Bice (ed altre signore) – 2
Quando la nonna, rimasta vedova, venne a vivere da noi, la sua domestica Rosa tornò dai suoi a Sacile, e la sarta Temide sostituì la signora Teresa per i lavori di cucito. Lavoro ce ne era sempre, orli, strappi, i busti della mamma che non andavano mai bene, e la Teresa, magrina, riservata e per di più vecchissima non veniva più: della sua morte non ho mai saputo, ma non è il primo pensiero che si ha da ragazzine, certo avrò domandato Non c’è la signora Teresa? Mi avranno detto che non poteva venire, e a me sarà andata bene così, la risposta era esauriente, se non poteva, non poteva, era vecchia, logico che fosse stanca.
La nonna, che aveva dato alla Temide il soprannome “la Temibile” , non era temibile di meno: durante lo sfollamento con un calesse era andata dal capo dei partigiani della zona – il Diavolo Rosso, scherzava mio fratello, credo che scherzasse, visto che nel Canavese era invece in azione il Diavolo Nero – per riprendersi il ciclomotore sequestrato al figlio.
La Temibile era una donna energica, con pochi capelli grigi permanentati e gli occhialini poggiati sul naso prepotente e puntuto, e urlava sempre i suoi complimenti, “La signorina Cristina l’è propri una bela putela” . Camminava con passo svelto e deciso, un po’ piegata in avanti cosìcchè il sedere restava un po’ in fuori, e la borsetta al braccio, aveva ben poco di femmineo; fu con stupore che scoprii che era sposata e separata, cosa allora poco frequente: l’immaginario collettivo comportava, per la donna separata almeno una doppia vita e abbigliamento provocante, lei penso sia stata semplicemente una moglie insopportabile. La nostra domestica, Angela, mi raccontava infatti che la Temide era spilorcissima, non accendeva mai la luce in casa perché alla sera le bastavano i lampioni della strada e andava a dormire presto, e d’inverno non accendeva il frigorifero, era sufficiente tenere il latte sul davanzale. “. Come la signora Teresa, ad un certo punto anche la Temide non è più venuta, ma lavorava in casa sua; e che fosse tornata al suo paese nel mantovano me lo aveva detto Angela, che doveva averla sentita ancora, era indignatissima perché il marito della Temibile era morto, e si era ben guardata dal lasciare i pochi soldi ereditati alle sue cognate, che si erano prese sempre cura del fratello quando si era ammalato.
A boccette ho perso, ed adesso ho anche sete.
Tragico il bilancio della serata trascorsa col Capofamiglia ed una coppia di amici alla Cooperativa La Concordia, a Trenno, nonostante reciproci punti bevuti per omini bianchi e rossi svenuti, e colpi magistrali casuali, tipo volevi colpire una rossa avversaria, bocci invece una tua bianca che boccia un’altra rossa che abbatte un omino e ti posizioni vicino alla blu.
Nonostante fosse serata di Karaoke, la Cooperativa al telefono ci aveva assicurato che c’era il pane per la sera, cosa che non sempre succede di sabato, e che ci avrebbe accolto.
Entrando nel locale, verso il biliardo delle boccette, un tavolo era già apparecchiato per noi. Vassoio di abbondanti salumi e formaggi misti, cetriolini, vino acqua coca cola affogati al caffè e due partite a boccette, a Milano è ancora possibile passare un sabato sera in quattro senza spendere neanche 50 euro tra tutti.
Il Karaoke dava il suo tocco di colore alla serata, si alternava la più svariata musica canzonettistica italiana, svariata per me, probabilmente la solita per i karaokisti, i motivi più conosciuti, i più orecchiabili, e una puntata all’estero, con Dylan, Knockin’ On Heaven’s Door.
Dal nostro angolo di sala non potevo vedere, ma ad un certo punto ho sentito acclamare Pinuccio, Pinuccio, e poi Zucchero, ed invece si cantava Una carezza in un pugno: forse qualcuno aveva semplicemente ordinato un caffè.
Il biliardo per le boccette è situato prima della porta di accesso al santuario del Biliardoni Nazionali, dove questa sera sono entrati un paio di giocatori con un secchiello ed una bottiglia di spumante; in un angolo sono appoggiati gli ombrelloni, una bicicletta e due monopattini. Un cagnolino nero gironzolava tra i tavoli, e su un altro tavolo si accalcavano bambini con fogli, pennarelli e timbrini: qui, c’è posto per tutti.
Quando è stato il momento di andare, mi sono seduta ad aspettare gli altri ad un tavolino fuori, tra vasi di primule – credo si sia entusiasti delle primule coltivate solo per la gioia di ritrovare i colori dopo l’inverno, è un fiore che svanisce in fretta, lasciando solo della lattuga verde – non faceva niente freddo, e si sentiva nell’aria odore di stallatico, che arrivava probabilmente dai campi che coltivano a mais e dall’Ippodromo, non sono distanti da lì. Già l’Ippodromo…ora che anche le corse sono in declino, chissà se si riuscirà a salvarlo ancora dalla furia edilizia. In ogni caso, dalla porta aperta del locale, si sentiva un coro, Viva la mamma. E chissà se lì fuori, d’estate, di sera tardi così si sentono anche i grilli.
The Help
Anche stasera ho lasciato una lacrimuccia al cinema Ariosto, solo una o due, non tanto da giustificare l’abusata esclamazione “che bel film, ho pianto tanto”. Il film era bello indipendentemente dalle mie personali gocce saline, forse un filo slegato in alcuni passaggi, ma assolutamente godibile, tratto da un romanzo di Katryn Stockett ( a me sconosciutu entrambi ma non faccio testo) con la regia di Tate Taylor ( pure sconosciuto, o sconosciuta, non so neanche se sia uomo o donna), regia senza imfamia e senza lode.
Nei titoli di coda ho visto che era indicato un nome per gli effetti speciali, ed ho pensato ohibò, ma dov’erano gli effetti speciali, in un film ambientato con semplicità tra case e giardini, e ho trovato: dovevano essere le pettinature cotonate tipiche degli anni ’60.
Sulla trama non mi dilungo, al solito, perchè temo di perdermi poi nei dettagli, e perchè non voglio rovinare il gusto al futuro spettatore: una ragazza dagli occhioni smisurati, e che si distingue dalla massa per i capelli coi riccioli naturali (Emma Stone) appena laureata torna nella natia cittadina, trova un piccolo impiego in un giornale, e si rende conto della vita che fanno le colf di colore negli anni ’60 a Jackson, nel Mississippi, cui viene fino vietato di usare il wc casalingo per evitare contaminazioni, ma crescono con amore “i figli dei bianchi” trascurando per necessità i propri. Vincendo le iniziali diffidenze -le leggi razziali sono ancora severissime, ma stavano muovendosi i Kennedy e Martin Luther King- la ragazza, Eugenia detta “Skeeter”, riesce ad intervistarle e farne un libro, che avrà una pronta diffusione nella cittadina, con i prevedibili effetti collaterali.
Nel film si avvicendano grandi donne e donne mostro, gli uomini appaiono nei loro lati peggiori, quando gli è dato di apparire, si salva solo il gentile marito di Celia Foote, Celia (Jessica Chastain, un viso non scontato) donna platinata e seducente, eppure schietta, non riesce a farsi accettare dalle giovani serpi locali, e stabilisce un rapporto di sincero affetto con la domestica Minny (Octavia Spencer, premio Oscar attrice non protagonista), giustamente si merita un marito sinceramente innamorato, l’unico del film.
Difficile spesso dire chi sia il o la protagonista di un film, non necessariamente è il personaggio che si vede di più, o l’artista di maggior calibro, la Minny premiata con l’Oscar secondo me non era certo un personaggio “non protagonista” , mentre Skeeter, per quanto intelligente e radiosa, mi è parsa più un espediente per tenere insieme la trama.
Anche la scrittura aveva una parte importante nel film, come veicolo verso la libertà propria ed arma per la resa dei conti, lo scrivere come aspirazione e realizzazione di sè, un sè che abita nel mondo, non un sè ombelicale.
In ogni caso la visione è piacevole, in un continuo passaggio di stati d’animo, dal sorriso alla commozione, dalla risata alla suspence. Della colonna sonora non mi ricordo invece nulla: evidentemente non sforava ed era ben amalgamata al racconto, però non so se questo sia un bene.
La nonna Bice (e altre signore) – 1
La nonna Bice aveva circa ottant’anni più di me, e non mi ricordo di averla mai sentita come una nonna affettuosa. Il sabato pomeriggio mio padre mi portava in visita, e si stava in salotto, tra quadri e statuette di porcellana, seduti ad un tavolino rotondo, sul quale la nonna spingeva verso di me una ciotola di peltro col coperchio perchè prendessi un cioccolatino. Era piena di Caffarel, mescolati alle caramelle di zucchero alla menta fondente Perugina, ed io sceglievo sempre il cioccolatino a forma di ghianda, perchè si poteva dividere in due e quindi mi sembrava durasse di più: poi lisciavo la cartina marrone e oro, me l’avvolgevo al dito e quindi le davo la forma di un bicchiere a calice: il resto del tempo lo passavo a cercare di farlo stare in piedi, la nonna era noiosissima, mi chiedeva della scuola, e poi non sapevamo cosa dirci, ed insomma, quella cartina dovevo farmela durare un bel po’.
Alle volte mi rifugiavo nello studio dal nonno, a guardare i suoi francobolli, gliene arrivavano da tutti i paesi, anche dall’Africa, coloratissimi, o in guardaroba dalla Rosa, la loro domestica, di una decina d’anni più giovane della nonna, molto rosea e liscia anche di pelle, con i capelli bianchi, e gli occhi aguzzi. Mi ricordo che preparava a Carnevale delle chiacchiere friabilissime ed era originaria di Sacile, dove non sono mai stata, ma dai suoi racconti mi è rimasta l’idea di un paese con case di sassi e tante salite con scalini di sassi, e anche molto verde tra i sassi. Non mi era granchè simpatica, preferivo la mia Angela, che un anno passò le vacanze con lei al paese, e la mia signora Teresa, quella che veniva a cucire da noi, piccolina e coi capelli grigi, che stava dalle suore, ed io pensavo stesse in orfanatrofio. Anche dalla nonna Bice andava una donna a cucire, mantovana, ma non la si chiamava signora, era solo la Temide, da lei soprannominata La Temibile. Era davvero molto esuberante, parlava urlando ed era spesso entusiasta “Ma varda come l’è bel, varda!” gridava dopo averti infilzato tutt’intorno gli spilli, come un lanciatore di coltelli, “Una cusitura chì, e chì” ed il vestito era subito riadattato. Per anni non ho avuto quasi mai vestiti miei, mi arrivavano in gran parte da mia cugina di sei anni più grande di me, fortunatamente la zia sua madre aveva una sartoria in Via Verdi, di fianco alla Scala.
La nonna Bice e il nonno Mario