Alcuni pensieri dal film che ho visto ieri, qui il trailer con la splendida voce di Alessandra Ravizza, alla Biblioteca di Baggio; il regista Adil Azzab era presente alla proiezione del film, la sala era piena.
Il film narra la vicenda di Adil, ovvero il regista del film, rimasto in Marocco con la madre e i fratellini mentre il padre si era avventurato in Italia. Il ragazzino è costretto dallo zio, piuttosto violento ed amante del gioco e delle scommesse, a custodire il gregge di pecore e a fare combattimenti con un coetaneo, per ottenere in premio due scatolette di tonno.
Nonostante il forte legame affettivo con i nonni e la madre, Adil sogna di andare altrove, avendo compreso il futuro che lo attende, finite le elementari, pastore di pecore in eterno in una terra piana e assolata. La madre lo capisce e fa avere un messaggio al padre, che impegna i propri risparmi per far portare Adil in Italia.
Siamo nei primi anni 2000. Il ragazzino, che sogna di fare l’elettricista, approda a Milano, dove aiuta il padre al mercato, riesce ad avere il permesso di soggiorno, va a scuola, e imparando la lingua riesce anche a stringere amicizia coi compagni di scuola, a studiare e poi lavorare come elettrotecnico. Quando la ditta chiude, un’associazione che si occupa di aggregazione sociale lo include nei suoi programmi insegnandogli la comunicazione mediale, e il videomaking. Adil, diventato collaboratore volontario nella nella medesima associazione, riesce così a raccontare la sua storia in un film, con i pochi mezzi a disposizione raggranellati con un crowdfunding, e girato con la funzionalità video di una macchina fotografica Canon.
Un fratello impersona Adil ragazzo nel film, gli attori sono infatti gli amici e i parenti stessi.
Agli inizi del secolo – ora, nel 2018, possiamo scrivere così – veniva emanata la legge Bossi Fini, ma se torno indietro con la memoria, il problema immigrazione non ricordo fosse sentito come ora, o meglio non lo si sentiva nel modo esacerbato e strumentalizzato e sfruttato come ce lo fanno sentire ora. E’ di oggi l’arresto in Francia di un uomo che aiutava una coppia di immigrati a valicare il confine nella neve, lei incinta. E la morte di una gestante ammalata di tumore, bloccata alla frontiera nella neve col compagno, portata davanti a un centro di assistenza, salvato il bambino col cesareo, nato orfano di madre e ora ricoverato a Torino. Lei si chiamava Beauty, il suo compagno si chiama Destiny. Sì, certo, di storie così ce ne sono tante, e di miseria quotidiana, anche nel nostro paese, anche di italiani. Ma sempre miseria è. Miseria d’animo versus miseria di fatto.
Pensavo, ascoltando Adil regista che raccontava della nascita del film, “cosa è riuscito a fare, nonostante noi” . Il ragazzo arriva a Milano, e resta sconcertato, così tanta gente, e nessuno sembrava vederlo.
Chissà se ora, adulto, avrà modo di progredire nel suo percorso.
Uno dei punti portanti del film è il senso di estraneità… sentirsi straniero in Italia, tornare nel proprio paese per ritrovare le proprie radici, e allo stesso tempo sentirsi cambiato. Non essere nè carne nè pesce.
Dalle conversazioni con il pubblico, è emerso che la stessa sensazione la prova chi è migrato al Nord dal Sud Italia. Forse è una cosa che tutti noi italiani dobbiamo tenere presente.
Alla domanda “ma ora che qui hai studiato, fatto esperienze, non provi il desiderio di tornare al tuo paese ed insegnare quello che hai imparato, aiutarli ad ampliare le prospettive di futuro lì?” una forma velata di aiutiamoli a casa loro. Adil vorrebbe che tutti potessero studiare, perchè in Marocco chi sta lontano dalle città fa solo le elementari.
Ho solo voluto appuntare alcuni pensieri, senza nè arte nè parte, al mio solito.
Anche perchè l’argomento è smisurato, soggettivo, sfaccettato, mondiale.
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LETTERE DA BERLINO
Sottotitolo: Quando Twitter non esisteva ancora.
Otto e Anna Quangel, berlinesi, hanno perso il figlio sul fronte franco-tedesco; nel padre , meccanico, matura l’idea di spargere granellini di sabbia, ma tanti, per far fermare la macchina tritatutto del nazismo (tritatutto l’ho aggiunto io).
Una cosa che ai tempi di twitter sembra una bazzecola – no, non penso sia una bazzecola mandare messaggi dai paesi dove la libertà non abita più – bazzecola perchè per la maggioranza di noi è un gesto familiare quotidiano che si fa senza pensarci troppo su.
Non ho letto il libro di Hans Fallada da cui è stato tratto, Ognuno muore solo – di Fallada lessi da bambina il romanzo Fridolino tasso birichino, lo lessi rilessi e lessi ancora, tanto mi piaceva per cui non so dire quanto il film segua il romanzo, che comunque è stato ispirato dalla storia dei coniugi Otto e Elise Hampel.
I granellini di sabbia sono cartoline, accurate come piccoli capolavori, dove marito e moglie riportano brutali crude verità sul nazismo, e che poi rischiosamente disseminano nei luoghi più frequentati della città, perchè vengano raccolte e lette, perchè sveglino le coscienze dei concittadini narcotizzate dalla paura. Solo, la maggioranza dei biglietti viene raccolto da persone terrorizzate dalla sola vista dello scritto, e da questi consegnati alla polizia hitleriana, che ovviamente indaga e noi, sostenuti da una consona colonna sonora, si fa il tifo perchè i coniugi non vengano scoperti.
E’ sempre opportuno non smettere di raccontare quel buio alle nuove generazioni, ma mi chiedevo cosa avesse da offrire l’ennesimo film sul periodo nazista, e credo sia il quotidiano dei cittadini sotto il nazismo. La vecchia signora Rosenthal rifugiatasi in soffitto e foraggiata dalla postina, il giudice Fromm che si offre di nasconderla, il ladro sciacallo, la fila di donne ebree costrette a raccogliere mattoni in mezzo a delle macerie, i lavoratori che devono incrementare la produzione per obbedire a Hitler, chi si mutila le mani per non partire militare, chi si terrorizza per aver solo toccato e letto le cartoline dei Quangel, l’investigatore in gamba che lotta col suo senso dell’onore e la sua coscienza.
Comune denominatore la paura.
Ripenso all’altro film visto recentemente sull’argomento, Frantz, collocato invece alla fine della guerra, dove i genitori apparivano invece più rassegnati, in attesa di qualcosa, di qualche segnale che non poteva più arrivare.
La cosa più bella qui è l’amore della coppia protagonista, un amore intenso e di poche parole, timido e dolce, che arriva e commuove.
Non conosco il regista Vincent Perez, non ricordo Brendan Gleeson che avrei già visto in Suffragette (era anche nella serie di Harry Potter) e qui bravissimo, non ricordo in altri film anche se ne ha girati parecchi di rilievo che non ho visto l’investigatore Daniel Bruhl, ma ricordavo benissimo la grande Emma Thompson, già amata in Casa Howard, Quel che resta del giorno, Ragione e sentimento.
Curiosamente, se penso a Jane Austen, l’inglesità che amo, la vedo con i tratti di Emma Thompson, anche se in realtà la scrittrice era tutta diversa.
CAFE’ SOCIETY pensierini sul film
L’ennesimo film di Allen, detto senza quel senso di noia spesso incluso in questo aggettivo, ennesimo. Ne ha fatti davvero tanti, e debbo dire che non troppi sono indimenticabili, o mi hanno lasciata altra traccia oltre la piacevole visione e l’ascolto delle inconfondibili colonne sonore. Cioè, film come Provaci ancora Sam, Prendi i soldi e scappa, per dirne solo due, sono ormai storici, imperdibili, dubito che di questa sua ultima generazione di film alcuni lo diventino.
Cafè Society per me esce un po’ da questo filone, vi ho ritrovato un po’ della passata verve caricaturale, e mi ha fatto molto sorridere.
La vicenda non ha un vero inizio e una fine, la vita scorre su un nastro, abbiamo visto al cinema lo scorrere di una parte di questo nastro… le vite delle persone che abbiamo seguito per un po’, continuavano, solo, siamo usciti dal cinema.
Come tanti film di Allen, l’amore fa da padrone, l’amore con le sue assurdità, che scherzi ci combina.
Anche questo film, come in quello visto la settimana scorsa, Frantz, è come diviso in due “vite”, qui Los Angeles e New York.
Il film è divertente, gli attori giusti, la musica straripante, la fotografia bellissima – la prima inquadratura della piscina mi ha ricordato le luci di Hopper – le vicende non coinvolgono visceralmente, cioè, così devono essere le cose, anche l’amore è così che funziona, i gangster fanno così, nei night la gente nel 1930 era così…e tu guardi lo spettacolo. Così si viveva a Los Angeles e a New York, questo succedeva.
Cioè, non ti asciughi lacrime per l’amore deluso, così doveva andare… forse sono stata una spettatrice un filino cinica, ma molto molto soddisfatta.
FRANTZ
Citandolo ad un amico, da poco uscita dal cinema, ho bollato questo film come molto lento e mediocre. Ripensandoci, lento è lento, ma non è così banale.
Non intendo accennare alla trama, perchè l’aspettativa è necessaria al film e non voglio rovinarne la visione.
Non conoscevo nessuno degli attori del cast, nemmeno la luminosa Paula Beer, la protagonista Anna, che ha vinto il premio Mastroianni alla 73ma Mostra di Venezia, nè Pierre Niney, il coprotagonista Adrien, dai dilaganti padiglioni auricolari, dai tratti che ben si adattano alla fragilità psichica del personaggio che interpreta. Il film è girato in bianco e nero, salvo i momenti dei ricordi dei sogni e dei racconti, immagino sia il contrasto con la realtà non troppo allegra dell’immediato dopoguerra. Una cosa curiosa: ripensando ad alcune scene, mi chiedo, era in bianco e nero o a colori? Tipo le ultime inquadrature, per me doveva essere a colori, la realtà non più grigia perchè la vita riprende, ma non lo so, forse era in bianco e nero:
La fotografia è ottima, a causa di tale Pascal Marti, a me sconosciuto (e scopro sul web che, col suo zampino, avevo visto secoli or sono Le fate ignoranti) come mi è sconosciuto l’autore della colonna sonora, Philippe Rombi (con lui avevo visto Nella Casa, sempre di Ozon): in alcuni film (tra cui questo) non mi accorgo della colonna sonora, mentre in altri la distinguo, come nei film di Allen, per esempio, che spesso introduce motivi già noti, li riconosco. Vabbè, Barry Lindon, Lawrence d’Arabia, Giù la testa, erano musicone.Non so dire se sia un demerito del musicista o un merito: non la distinguo semplicemente perchè è ben amalgamata con il film, o sono concentratissima sulla vicenda, ovvero il film mi ha preso, nel suo insieme, con buona soddisfazione del regista Francois Ozon e i suoi collaboratori.
D’altra parte, quando scrivo di un film, mi piace annotare le mie impressioni di spettatrice qualunque, non da professionista, ce ne sono già tanti più preparati di me, per farlo:
Correggo, meglio: quando scrivo, in generale, che sia di un film o di altro.
Non penso di possedere la Conoscenza, e l’Infallibilità.
Dicevo, questo film non è poi una così banale storia d’amore, porta a riflettere sulla menzogna e sulla verità, l’amore semplice e l’amore complesso, la fiducia ed il perdono.
Come sembri a volte inutile la verità, addirittura importuna, quando vogliamo imporla ad altri per far stare bene noi stessi, anche se non ci è richiesta..anzi, le menzogne fanno stare così bene, perchè ferire, quanto siamo egoisti, per sottrarre momenti di vita a colori agli altri?
Il perdono anche, è una faccenda complicata, bisogna stabilire una graduatoria dei nostri valori, quali siano ovviabili e quali no, un subbuglio dentro di noi, quindi.
Nota a margine, la vicenda si svolge nel 1919, e nel paese tedesco dove arriva, Adrien è malvisto in quanto francese, i francesi sono gli assassini dei giovani morti al fronte…questo nazionalismo, questa diffidenza a guerra finita. tu sei francese, io tedesco, abituata all’idea di Europa, fa un po’ effetto, ma viene il pensiero: ci torneremo? visto che anche i muri, pare, “a volte ritornano”.
The Danish Girl
Un capolavoro…
Quando esci dal cinema portando dentro di te i personaggi, lo è.
La musica avvolgente, ogni fotogramma un quadro, splendido per colori e suggestioni…
Ho vissuto con Gerda e Lili/Einar la loro storia, ho trattenuto a fatica le lacrime:
Una coppia felice, giovane, in cerca di un figlio che non arriva… il caso, ed Einar accarezza delle vesti di raso, indossa una calza femminile… viene alla luce una sofferenza interiore, una sofferenza liberazione, e questo non può che creare uno scompenso nella coppia, che il profondo affetto riesce a superare, Gerda non abbandonerà mai Lili, la seguirà nella sua trasformazione.
Lili è il primo uomo che ha affrontato un intervento chirurgico per diventare donna…desiderava addirittura diventare madre.
Nel 1930 questa possibilità non veniva neanche in mente ai medici che avevano interpellato prima del chirurgo… schizofrenico, interventi coi raggi, operazioni alla testa, camicia di forza…solo il chirurgo tedesco capisce che la malattia è il corpo maschile che riveste una donna.
Voglio parlare con Einar, dice Gerda a Lili… ma Einar non c’è più, Einar si sforza di tornare, ma non ce la fa, confessa che anche quando dorme, sono i sogni di Lili:
Eddie Redmayne e Alicia Vikander sono riusciti a comunicarmi il disorientamento la scoperta la sofferenza la liberazione l’intensità dell’amore…anche la durezza.
Non so perchè mi venissero le lacrime, sicuramente avvertivo tutto questo, ed anche il pensiero dell’incomprensione dei più, lo scherno, cui queste persone – come accade anche in tanti altri tipi di diversità – sono destinate, e mi viene una sorta di rabbia..
Soprattutto in questo periodo di discussioni per la legge delle unioni civili, delle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso, ecco, chi denigra, che deride, chi si indigna, si mettesse nei panni di questi “diversi”…e vengano a dirci se è natura, o contro natura.
Good Kill all’ ucci ucci cinema.
Ieri sera alle ore 22 circa facevo il mio ingresso piovoso nel mondo dei cinema multisala, quelli grandi grandi che in genere non stanno in centro città, hanno il loro parcheggio, cattedrali a misura dello spettatore d’allevamento.
Come in tutti i cinema, dove c’è la cassa c’è un tabellone qui altissimo, con il titolo del film, le sale (qui in numero di otto), l’orario, i posti disponibili. La coda scorre veloce, per fortuna.. quando arrivi in prossimità della cassa, si palesa un cartello ad altezza umana:
I film hanno inizio 25 minuti dopo l’orario indicato, i biglietti si vendono fino a 20 minuti successivi ” .Glab, il film cominciava alle 22.40, quindi….alle 22.65, ovvero alle 23.05.
Ottenuti i biglietti, ci si dirige alla sala, al piano superiore. Ci si accede, pare, solo con una scala mobile, custodita da due omini del cinema, quelle che una volta si chiamavano maschere, ora sembrano mastini. Non si sale fino a che non cominciano i film. L’atrio è infatti pieno di gente vagante. Ci sono bar, ristoranti, pizzerie, pochi sedili indipendenti. Ci si dirige a prendere un caffè. Per forza, la ggente in qualche modo deve passare il tempo di attesa. Poi cosa c’è di più comodo che cenare direttamente lì? Chissà quanti amori sono nati nei fast food, quante dita unte fried chicken si sono sfiorate, strette, durante la visione del film.
Dopo il caffè, ecco, è l’ora, possiamo accedere alla suprema scala mobile, passiamo, ma la piccola sala 7 è al secondo piano. Ci sono le scale, dal primo al secondo. Quelle mobili non le vedo, c’è un ascensore che puoi prendere solo per scendere.
Quindi, ascendo al secondo piano per le scale immobili.
Insomma, il compito assegnatoci è chiaro.
Il film. Good Kill, sembrava interessante, parlava di guerra coi droni, interventi mirati da migliaia di chilometri di distanza, ed il disagio di un aviatore passato dalle azioni in volo a quelle seduto davanti a un monitor, problemi che si riversavano sulla vita di coppia etc.
Nella prima parte del film mi sono anche un attimo addormentata, le continue riprese dal drone non erano il massimo, e tutto il ritmo del film è assai lento.
Il sottotitolo del film spiega tutto: Se tu non vedi in faccia il tuo nemico come puoi vedere in faccia te stesso?
Ci si sente un poì vigliacchi a eliminare vite umane, non sempre tutti combattenti, dalla propria sedia, obbedendo agli ordini di una voce che arriva da un altoparlante…è un videogioco fatto realtà. Thomas Egan non riesce più, ed anche una volontaria in team con lui si svolontarizza, ma tant’è, non è un film denuncia, non ha smosso le acque, e i droni partiranno infatti anche da una base italiana, verso il Nordafrica, a scopo solo di difesa… speriamo lo scopo non cambi.
Ci si pone un dilemma, nel film, a cui non viene data risposta, una risposta che non viene data neanche nella vita fuori dal film : “loro ci uccidono, noi li uccidiamo, i loro figli sopravvissuti si vendicheranno uccidendoci, non è la soluzione” . Se gli USA usano i droni, loro usano i bambini bomba, e fanno attentati uccidendo consapevolmente nostri civili, e sono ovunque, non in una casetta vigilata da un drone e bombardabile.
Un film che può piacere agli appassionati del genere, quale io non sono.
Tra l’altro, mi ha colpito la forte presenza della geometria nel film. Dal taglio di capelli a spazzola dell’ex pilota, alle casetta afghane, alle inquadrature per sganciare le bombe (oh, ma qualcuno che mette la benzina e le bombe nei droni, e da dove partivano. questo non lo ho visto, se c’ero dormivo, forse), ai quartieri dei militari in Las Vegas, sembravano le casette del gioco SIMS1, tutte in fila, tutte uguali, e anche la moglie del protagonista, Molly, sembrava una Barbie.
Impatto empatico pari a zero.Io, magari per voi tantissimo.
Mah!
noticine su IL CASO SPOTLIGHT
Non dirò nulla della colonna sonora perchè non la ricordo.
Vuole dire che non si staccava dal film. Non strideva, e non brillava di luce propria, quindi si amalgamava. Mi capita assai di rado, di distinguerla dal filme ricordarla a parte.
La vicenda è nota, in quanto realmente accaduta. Il gruppo Spotlight, che al Boston Globe si occupava di approfondimenti di notizie delicate, viene incaricato di andare a fondo su quella di un caso di pedofilia.
Le indagini si allargano a macchia d’olio, i prelati interessati sono moltissimi, e la Chiesa ha fatto di tutto per mettere a tacere le cose, facendo trattative private con le parti lese, trasferendo i preti etc.
I giornalisti vincono le resistenze della città omertosa – non vedo non sento non parlo – riuscendo a ricostruire il sistema che ha interessato più di 1000 ragazzini e ragazzine, e un’ottantina di preti.
Il film, candidato a molti premi Oscar (miglior attore e attrice non protagonista, sceneggiatura, miglior film, regia, e credo basta, e basti) è senza dubbio da vedere e molto interessante, anche per chi non è giornalista, perchè mostra come si fa giornalismo, ovvero come si cercano le fonti, e le prove, si rispetti la privacy e le corse per non farsi soffiare le notizie dalle altre testate.
Il primo pensiero: Quando i giornalisti sono davvero utili.
Il secondo pensiero: Non è intervenuta alcuna forza politica, solo la direzione del Globe che voleva aumentare/mantenere il numero dei lettori e aveva spinto all’indagine.
Il terzo pensiero che forse doveva essere il primo: la notizia l’avevano sottomano anni e anni prima, un altro caso, ma l’avevano sottovalutata.
Dicevo il film è interessante, e coinvolgente, però lo stavo guardando io, che marginalmente conosco l’ambiente di chi scrive, io stessa nel mio piccolo scrivo qui e sul social e nello scrivere mi faccio delle domande: è in grado di coinvolgere anche chi da questo ambiente è lontano, al di là del problema ripugnante emerso nella Chiesa?
Perchè questo non è un film sulla pedofilia, è un film sul giornalismo.
Certo, le emozioni che spingono il gruppo Spotlight sono abbastanza contagiose, forse alla storia manca quel pizzico che fa film, che rende i protagonisti un po’ più eroi agli occhi dei non addetti ai lavori… ovvero qualcuno che contrasti i giornalisti, li minacci, li diffidi.
Tipo, Rezendes è al telefono e la telefonata si interrompe bruscamente, e bussano alla sua porta di casa. Brrr… che arrivi la nominata pallottola, che entri qualcuno che lo fa nero? Chiede chi è, L’arcivescovo di Canterbury, risponde la voce del capo redattore Bradlee che entra con una pizza.
E comunque, per me che amo i puzzle, è un bel film.
FUOCHI D’ARTIFICIO IN PIENO GIORNO (Black Coal, Thin Ice)
Un film giallo cinese (o noir, o poliziesco) vincitore dell’Orso d’oro e d’argento al Festival di Berlino del 2014… per me, semplice spettatrice non cinemologa, è un film invedibile, almeno per i miei canoni armonici, meritevole tutt’al più di un orsetto caramella gommosa verde.
Si salva la vicenda, la trama, il filo, che si evolve evolve, parola grossa – a balzi e brandelli che si stenta a collegare, salvo che non ci si sia documentati sul film prima di andare a vederlo, e ogni tipo di suspence si perde, mancano i passaggio, sono sottintesi.
I dialoghi sono cinesemente ridotti al minimo, per cui non aiutano, come non aiuta la segnaletica stradale in sinogrammi: il protagonista Zang ritrova foglietti indicazioni etc, che solo lui sa che cosa diavolo c’è scritto, è soddisfatto del ritrovamento? gli crediamo.
Il film inizia con l’apparizione di una mano su un carico di carbone, poi si vede uno in stazione (non sai ancora che è Zang), che cerca di saltare addosso a una donna, alla quale si spalanca un ombrello, e gli dà un documento, pieno di sinogrammi rossi, che chissà cos’è, una patente, dicendo “eravamo d’accordo che era l’ultima volta” prima di salire su un treno.
Questa è la scena in cui lui viene lasciato dalla sua donna, dopo di che resterà inconsolabile. Poi il caso irresolubile della mano sul carbone e una sparatoria dal parrucchiere cinese in cui perdono la vita dei poliziotti lo portano all’alcolismo, esce dalla polizia e fa la guardia privata (lo si capisce bene leggendo le schede del film sul web) così gli rubano la moto nella neve lasciandogli un motorino, tanto era ubriaco, riverso a lato della strada.
Questa città della Cina del Nord (si sa sempre dalla scheda film) non ha niente di cinese se non le luminarie led, e i cinesi sono vestiti da occidentali, sono anche ciccioni, che qui li vedo sempre magri, e non è vero che si somigliano tutti come si dice.
Le biciclette sembrano aver lasciato il posto ai motorini, efficientissimi nella neve, non lo avrei detto.
Musica: occidentale Sensualità: zero. Sesso: animale. Fotografia: pessima. Pathos: zero. Humour: zero Fuochi artificiali: cinesi.
Temperatura della sala del cinema: glaciale.
Peccato, la storia era anche bella.
PITZA E DATTERI
Un film portatore di messaggi, secondo me destinato a restare privo di autorevolezza, salvo un Salvini o una Santanchè che si mettano a deprecarlo pubblicamente.
Il titolo, purtroppo, per quanto motivato, sembra quello di un filmetto qualunque che fa un po’ ridere, con questi personaggi un po’ ingenui e pasticcioni.
A Venezia uno sparuto gruppetto di musulmani, i cui membri provengono da etnie tutte diverse, cerca una moschea per pregare insieme, invece di riunirsi genuflessi verso la Mecca nei luoghi più imponderabili di Venezia. Arriva un giovane Imam afgano a cercare di risolvere il problema, ma il suo integralismo viene messo a dura prova dal fascino di Venezia, di una parrucchiera turca progressista, ma il problema della moschea verrà risolto.
Sicuramente il fil rouge del film è l’integrazione. Bepi/Mustafà (Giuseppe Battiston) è un voluminoso veneziano decaduto che si è convertito all’Islam, ed è irriducibilmente propenso alla violenza nei confronti di quella civiltà occidentale che lo ha bistrattato, pur di tornare in possesso della moschea ora diventato un negozio di parrucchiere. Gli altri componenti del gruppo, gli stranieri, sono invece molto riguardosi: il curdo, davanti all’ipotesi di usare esplosivi, obietta che gli italiani sono molto affezionati ai muri vecchi, così come l’arabo fa presente che la lapidazione in Italia non si usa… perchè alla fine nessuno di loro è veramente violento, e la moschea si può aprire anche alle donne, e sono orgogliosi che il sindaco di Venezia la inauguri. E il problema della moschea viene risolto da una persona da cui non se lo sarebbero mai aspettato…
Pitza, con tanti datteri, viene ordinata dal giovane Imam in un bar, dove si siede per provare a fare l’occidentale, quando si è smussata la diffidenza verso questa nostra civiltà, ed ha subito il fascino di Venezia, del mare, dei fuochi artificiali… Pitza e datteri, ovvero, l’integrazione.
Insomma, il messaggio di un Islam non violento, del desiderio di convivere in pace, passa facendo sorridere lo spettatore. Buona cosa gettare questi semi… solo il film di Fariborz Kamkari nel suo insieme, per quanto aiutato da una Venezia sempre meravigliosa, dalla musica dell’Orchestra di Piazza Vittorio – orchestra eterogenea quanto il nostro gruppetto – non è abbastanza incisivo, rischia di passare inosservato.
Insomma, un film godibile.
Un film in orizzontale.
Youth, la giovinezza.
Nelle Alpi Svizzere, anche le mucche al pascolo assurgono alla gloria cinematografica…tant’è che l’apatico direttore d’orchestra sorride dirigendo il suono dei campanacci. Perchè lui dice d’essere apatico, e poi si guarda dal di fuori, e si chiede conferma della sua apatia. Così apatico che non perde una sfumatura di quello che gli accade intorno, o di ciò che dovrebbe invece accadere.
Nel centro benessere nella Alpi Svizzere gli ospiti sono un po’ di tutte le età, certo per la maggior parte anziani, sempre meno anziani dei due bambini che li ascolti e son già vissuti e disincantati, pratici.
In questa sorta di casa di riposo per super ricchi dialogano concisamente tra loro gli amici e consuoceri Fred e Mick, ovvero l’apatico e il sognatore, il regista che sta scrivendo le scene del suo ultimo film, la figlia di Fred abbandonata di punto in bianco dal figlio di Mick, Jmmy attore di successo che deve immedesimarsi nella nuova parte, la tosta musa di Mick Brenda Morel, gli sceneggiatori , la massaggiatrice, il medico, Sua repellenza la controfigura di Maradona, e Miss Universo, che tenta di cogliere tutti di sopresa, esprimendo concetti probabilmente arguti.
Gli altri personaggi son tutti silenziosi, si muovono ieratici , anche la coppia che non si parla mai al tavolo del pranzo è ieratica, eccezion fatta per l’ululato che erompe dalla signora durante un coito, diciamo furtivo ma spiato per caso dai nostri due protagonisti, contro il tronco di un abete nel bosco, ma state sereni, la coppia riprende subito la sua ieraticità.
E’ un film prevalentemente orizzontale perchè molti dialoghi, pensieri, sogni nascono in posizione supina, il musicista mentre dorme con la figlia piangente vicina, o mentre le sue carni invecchiate vengono massaggiate con esperienza, il regista Mick con i giovani sceneggiatori pensano il finale del film sdraiati sui lettoni prima di dormire, o gli ospiti si avviano in fila silenziosa ed ordinata per sdraiarsi negli idromassaggi.
La storia è fatta di niente, ma come spesso capita, a Sorrentino e ad altri, il filo esile di narrazione serve a presentare affreschi e personaggi, momenti, come si avessero in mente prima le scene, e poi si sia pensato a collegarle in modo più o meno plausibile.
Caine e Keitel stupendi nella loro familiarità, ingombrante il Maradona (sarà che è un personaggio che mi ispira disgusto, non me ne vogliano lui o i tifosi napoletani) curiosa la figlia del musicista infatuata dallo scalatore svizzero, al quale avrei imposto “vuoi avere una storia con me? tagliati metà del materasso che hai per barba” e sì che mi piacciono barba e baffi) e dai con ‘sta cosa della piscina dove si immerge miss Universo tutta nuda, e i due vecchi amici la guardano, come una visione…questa foto in locandina, e ovunque, certo vistosa, si nota, attira, come ormai sederi perfetti e seni di tutte le forme non siano in mostra ovunque…forse è il momento top della loro vecchiezza, potrebbe avere questo significato. Banale, però, d’altra parte è un film pieno di luoghi comuni e dialoghi comuni. Comunque bello, bello per le musiche di Lang, bello per la fotografia minuziosa di Bigazzi, bello per la bravura degli attori. Un film che non ti scompone. Non è immediato trovarvi un senso, un messaggio, ma non è obbligatorio trovarlo, o riceverlo, e ci si accontenta della piacevolezza, del godimento nell’immediato, e già non è poco.
prossimi da vedere, Il racconto dei racconti, e Taxi Teheran.
En duva satt på en gren och funderade på tillvaron
Il negozio più affollato in via Torino alle 19 di sera, è Amsterdam Chips. Però non è bello starci seduta davanti a leggere un libro, sul marciapiede di fronte, alla fermata del tram in attesa che cominci il film, perchè arrivano le zaffate di fritto, e poi, per star ferme così, fa ancora un po’ freddo. E allora mi sposto nella galleria del cinema, e tanto per passare il tempo pensi, ” Quasi faccio una foto alla locandona” del film che ha vinto il leone d’oro come film dal titolo più lungo, e non c’è come pensarlo perchè cinque persone ci si fermino davanti a parlarsi. Ma è più lungo
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza
o forse
Cosa è successo tra mio padre e tua madre?
Il piccione vince.
Il piccione si vede solo nella prima sequenza, per giunta impagliato, che viene il dubbio sia impagliato anche l’uomo che rimane imbambolato a guardarlo. Poi il piccione non lo vediamo più perchè è lui che ci guarda.
Qualcuno si è anche sentito piccione ad essere andato a vedere il film, sentivo una uscendo che diceva una boiata pazzesca, mentre la aspettava fuori dal cinema un vecchietto a metà tra Nosferatu e i personaggi del film.
Non è un film facile, se si può dire che ha un filo conduttore, non si può dire che ci sia una vera e propria trama.
Goteborg, o qualunque altra città non importa. Goteborg perchè ci sono i marinai del 1943nella trattoria di Lotta la Zoppa, e i centomila soldati di Carlo XII diretti in Russia che passano davanti al bar dove Sem e Jonathan si sono rifugiati perdendosi e nel quale il re entra a cavallo e beve acqua minerale gassata. Sem e Jonathan sono i due mal messi piazzisti di scherzi di carnevale, personaggi dal colorito pallido come si fossero salvati da un film sui vampiri, che cercano di vendere denti di Dracula coi canini allungati – quasi come quelli della tigre con i denti a sciabola e il sacchettino che fa la risata “Vogliamo far divertire la gente” è il ritornello con cui mostrano la loro merce. Davanti allo stesso bar ripassa l’esercito sconfitto a Poltava, colpa dei russi che si sono armati di nascosto, consolano il re sfatto.
Il tizio alla fermata dell’autobus che sente dire dal negoziante che apre la bottega ” E’ di nuovo mercoledì” e rimane sconcertato, e chiede conferma agli altri che aspettano con lui, e tutti concordano sul mercoledì, scandalizzati che costui potesse sentirsi come fosse un giovedì.
I quadri nel film sono innumerevoli, in molti ci finiscono i due tristissimi piazzisti, ci sono altri personaggi che si vedono nei momenti in cui inseguono la loro vita, non sto a dirli tutti, perchè poi il film lo si deve andare a vedere e a scoprire.
Mi sento di parlare più di quadri che di episodi… sono quadri a colori tenui, grigioverdi, e i personaggi sono in genere pallidi, e stanchi, e sono la gente normale, quella che nessuno vede, di cui non ci si accorge che esistono, sono quelli che fanno numero, stentano ad essere protagonisti financo della loro vita. Quadri, perchè i movimenti sono ridotti al minimo, come i dialoghi. Un po’ come capita nelle esistenze solitarie. In certi momenti mi ricordavano un po’ scene della tragedia greca, col coro.
A noi spettatori viene da sorridere, non certo risate grasse e flaccide, mentre pochi dei personaggi trovano un motivo per farlo. E viene il dubbio se si tratti di esistenza o sopravvivenza, su questo riflette il piccione, credo, e come sia difficile a volte trovare un senso, uno scopo, cioè rispondere alla domanda “che ci faccio qui sulla terra”.
La qualità tecnica del film mi sembra parecchio buona, e curata… se si guardano i titoli di coda, sembra che abbia collaborato al film, una co.produzione francese, tedesca, norvegese e svedese, mi pare (4 erano) , l’esercito di centomila soldati di Carlo XII.
Regia di Roy Andersson, attori per me sconosciutissimi.
Un film da vedere? Direi di sì, ma certo non … nazional popolare.
Why Whiplash?
C’è un’infornata di film belli, non so come andare a vederli tutti. Intanto ho catturato American Sniper prima che esca dalle sale – se guardo i film o la tele dal divano di casa, non resisto sveglia davanti a nulla – Birdman e stasera fresco fresco Whiplash, e devo correre per Mr Turner che è già in giro da un po’.
Whiplash perchè all’Apollo Turner aveva gli orari sbagliati. Certo che all’Apollo sono bei bricconi, l’unica consolazione dell’annoso compleanno erano gli sconti al cine, e lì li hanno appena spostati a 65 anni, insomma, mi fanno lo stesso dispetto dell’INPS.
Premesso che per un film o un libro che non sia I Promessi sposi, l’Iliade e l’Odissea e Via col vento non racconto mai la trama. E’ un bellissimo film… esistono ancora cose di cui parlare che non siano deja vu. Un po’ assurdo nella sola scena dell’incidente di macchina (vi renderete conto vedendolo) può ricordare i film americani con istruttori militari un po’ sopra i toni, può ricordare i film sulle abnegazioni sportive, battere il record a tutti i costi.
Senz’altro l’eccellenza è protagonista, la cercano l’allievo ed il maestro. La cercano odiandosi, sfidandosi, facendosi gli agguati, usando altri allievi come pedine. La trovano. Credo non sia solo nella maestria nell’uso dello strumento musicale quanto nel loro rapporto, entrambi hanno trovato nell’altro quello che cercavano. Perchè se si vuole eccellere, bisogna lasciare sul percorso gli affetti familiari, anzi, gli affetti, e si resta soli, anche un po’ odiati, puoi accettare solo le persone che ti permettono di andare avanti, in questo dicevo Neyman allievo e Fletcher insegnante si sono trovati.
Non so giudicare la musica, non essendo musicista, non conoscendo pressochè nulla della sua scienza, ma non credo si debba suonare nella tensione che creava l’insegnante nei suoi sottoposti, penso che la precisione sia necessaria suonando in un ensemble, il jazz così rigido non me lo immaginavo… però questa rigidezza è un’arma necessaria allo svolgimento della vicenda.
Un pensiero in soldoni… sono contenta che sia uscito un film del genere, che racconti di una vicenda legata alla musica, all’eccellenza nel campo della musica. Che diano un quadro della musica come di solito lo danno dello sport. Ecco, vogliamo smetterla di pagare gli artisti in visibilità? L’arte, non è un dono che cade dal cielo. Cioè, non solo quello, al dono si accompagna un lavoro, dietro, e passione e sacrificio e tecnica. Forse non tutti si rendono conto, di cosa ci sta dietro.
Il film è candidato a soli 5 Oscar, si fa per dire, miglior attore non protagonista, miglior film, miglior sceneggiatura non originale, miglior montaggio e miglior sonoro –
Del sonoro, mi sono accorta persino io… come avrei potuto non accorgermi?
Fantastici primi piani, che abbondavano però anche sulle scene di Birdman: qui, non si deve perdere lo sguardo scambiato tra gli occhi fieri del ragazzo, e quelli da rettile del maestro, a suggellare il momento della resa reciproca, la fine delle ostilità.
Chazelle, regista a me sconosciuto, giovanissimo, anche Miles Teller, Neyman, ha partecipato a tanti film che non ho visto, come JK Simmons, perfetto per la parte, non sembrava neanche recitasse tanto incarnava il personaggio alla perfezione… con eccellenza, infernale quanto basta.
L’importanza di non porsi limiti: l’effetto nefasto delle altrui parole “Bel lavoro” che ti inducono a rallentare nella tua ricerca della perfezione, alla quale non si arriverà comunque mai, c’è sempre un qualcosa che si può fare di più per migliorare ancora… No, io non sono fatta di questa pasta, ma capisco che a qualcuno gli capita un fuoco dentro…
Però apprezzo quando non mi si dice “bel lavoro” e mi si danno consigli per migliorarmi.
DRAGON TRAINER 2 evvabè, lo so che c’è appena stata “Venezia”
Sono andata a vedere questo film solo per far felice il nipotino… non amo molto il fantasy, e neanche la nuova generazione di cartoni animati, ovvero quelli con personaggi mostri, e storie violente, sono rimasta agli orsi Baloo e alle principesse di Disney… non che le fiabe scherzino, quanto a cattiverie di ogni tipo.
Solo, i personaggi, i colori erano più soft, armonici di tanti cartoni propinati ora e che mi attirano poco, pur non avendo nulla contro il genere, non lo trovo necessariamente riservato ai bambini.
Così, sono rimasta piacevolmente sorpresa, non solo il film mi è piaciuto, ma me lo sto portando dietro, cioè, ancora oggi ci sto pensando su. O la bambina che è in me, ci sta sognando su.
La sensazione come se fosse stato tutto vero, ed è evidente che no: indubbiamente mi sono sentita partecipe della vicenda e della sorte dei draghi e del villaggio vighingo di Berk.
Naturalmente nulla sapevo del film Dragon Trainer, il primo, e che i due film sono tratti, a regia e sceneggiatura di Daniel Des Bois, da una trilogia di romanzi scritti da tale Cressidra Cowell, il terzo seguirà nel 2016 o 2017.
Nel primo film i Vichinghi erano in lotta con i draghi acerrimi nemici, poi tramite il figlio del capo Hiccup, che aveva fatto amicizia (in questi film non si parla di contatti FB) con un drago della specie “furiabuia” arrivò la pace e la convivenza: anzi, i draghi diventarono i destrieri onnipotenti degli abitanti del villaggio.
In questo secondo episodio la pace viene minata dal solito cattivo che vuole impossessarsi e dominare tutti i draghi, e tra situazioni comiche, dolori e gioie, si svolge l’abituale conflitto tra il bene e il male, e naturalmente vince il bene. Correggo, che vinca il bene sta diventando sempre meno cosa naturale.
Un film piacevolissimo da vedere, una storia ben articolata, personaggi umani dai sentimenti veri, i draghi stessi ricordano i nostri animali domestici, il furiabuia protagonista, Sdentato, non si discosta molto dai miei due gattonibui.
Il film manda molti messaggi – messaggi, non chissà che di originale, ma messaggi positivi, un sollievo, ogni tanto – ai ragazzini, e forse anche agli adulti che amano il genere.
Il ragazzo eroe, Hiccup, è privo di un piede, ha un animo grande e un grande coraggio, e compie la sua impresa. La madre, ritrovata dopo venti anni, si scopre che è una donna che voleva la pace ma restava inascoltata anche dall’adorato marito capo del villaggio, e trasportata lontano da una draga che le si era affezionata, ha realizzato i suoi ideali pacifici nel nido di draghi: felice di ricongiungersi alla famiglia visto che il dialogo ora era possibile, e che quello in cui lei credeva, e propugnava inascoltata, era ora una realtà nel villaggio.
L’apparenza, la diversità, l’amicizia, e il perdono, il furiabuia soggiogato dal drago cattivo Alfa che ha questo potere sugli altri, uccide il padre al posto del giovane eroe Hiccup, e rinsavito capisce cosa ha fatto, asuo modo chiede perdono, ma Hiccup addolorato lo respinge, e al drago amico non resta che andarsene con gli altri, comandati dal drago Alfa cattivo. Poi Hiccup capisce che Sdentato ha agito non in sè, riesce a recuperarlo e a far pace, nonostante il dolore grosso per il padre, e insieme affrontano il drago Alfa… Sdentato, sconfiggendolo, diventa a sua volta drago Alfa, e tutti i draghi vivono felici e contenti.
Ora, qui si aspetta il terzo episodio.
FATHER AND SON, mai visto un titolo meno identificativo di questo, però.
E’ un film giapponese, non conosco nè regista nè attori, mi ha semplicemente fatto simpatia la locandina, mi ha fatto pensare che doveva essere un bel film, ed in effetti lo è.
Tratta in modo delicato e semplice un tema a mio modo di vedere violento: due bambini sono stati scambiati alla nascita ed il fatto viene scoperto all’età di sei anni.
I bambini appartengono a due famiglie di estrazione sociale assai diverse.
Keità è figlio unico, vive in città, è stato allevato con disciplina, obiettivo la perfezione, il padre è in carriera, la madre ha lasciato il lavoro per seguire l’educazione del figlio; Ryusei ha due fratellini, vive in provincia, ha un minuscolo giardino con la biancheria stesa, il padre fa l’elettricista, la mamma lavora in un fast food e di scuola non se ne fa cenno.
Il discorso si snoda così in semplicità, come dicevo: il rapporto difficile del padre carrierista col figlio, rispetto al padre elettricista sempre presente che ripara robottini e fa volare aquiloni.
Il primo, tormentato, il secondo in pace con se stesso. Ovvia l’irriducibilità di Ryusei costretto a passare dal padre presente al padre carrierista, a passare da una famiglia chiassosa a un padre assente, le mura di un appartamento, e una nuova madre triste per la nostalgia del non-figlio Keità.
Conta il sangue, o conta il contatto della pelle? Le regole, o il sentimento? Per tutta la durata del film si resta sospesi, e si cerca una soluzione, io perchè madre, ma quasi tutti siamo genitori, senz’altro siamo stati figli, e se non ci si metteva nei panni dei genitori, ci si metteva in quelli dei figli, anzi nei panni di tutti: un film, un argomento coinvolgente. Violento perchè straziante. Padre e figlio, ma soprattutto figlio, perchè il minuscolo Keità è riuscito vittorioso dalla missione affidatagli dal padre, di vivere dai signori Saiki, chiamandoli papà e mamma.
Ci sono due cose che mi chiedo:
1) come sarebbe stata trattata la vicenda con due famiglie in condizioni simili, anzichè diametralmente opposte
2) perchè, ancora una volta, i traduttori italiani dei titoli dei film non cambiano mestiere? mentre il titolo italiano ti fa pensare a Cat Stevens, che pure si è fatto musulmano neanche buddista, e c’entra niente, il titolo in inglese (non dico nulla sul titolo in giapponese per ovvi motivi) per lo meno evidenzia questa questione della consanguineità, del ritrovare una parte del proprio trascorso nel figlio “vero”, pur cresciuto distante da te, come accade nel film. Father and son, è assai riduttivo.
Fading gigolo, film per caso.
Un film qualunque, ad alta densità di figli di e di parenti di, che può essere gradevole, che può esser scelto per passare 98 minuti in pace con se stessi, ma che avresti anche potuto andare a vederne un altro senza rimpianti.
Questo è un film con Woody Allen, non di Woody Allen, anche se mi sembra di vedere il suo zampino nella caricatura di alcuni personaggi, esaltandone lo stereotipo, come è suo modo.
Leo Gullotta che lo doppia, con una voce più tremula, era assai irritante, non so se sia invecchiato troppo lui o dovesse far sembrare più vecchio il vecchio Woody.
La trama appare un po’ raffazzonata e puttosto scontata, lo scorrere del film non è privo di salti, cioè, se riesco a spiegarlo bene, spesso si salta da una scena all’altra senza che vi si sia portati, all’accadimento successivo, con fluidità, cioè, non sembrano spiegate e spiegabili.
Woody Allen, libraio in crisi che scopre il mestiere di pappone – triste considerare quali siano i settori in crisi e quali no – non mi pare al suo meglio, fa più simpatia il fioraio Fioravante, John Turturro, che si intuisce essere stato da giovanissimo un bambino irrequieto, poi educato dall’amicizia del libraio. Cioè, non ti immagini un energumeno che per mestiere inventa composizioni floreali e abita in un appartamentino zeppo di libri e con delle velleità antiquarie, e questo mi piace, perchè la cultura, o anche solo l’amore per i libri, per le parole, si può annidare ovunque, anche quando non te lo aspetti; ricordo tra le conoscenze di blog il meccanico che aveva la passione di comporre acrostici poetici, cioè, un meccanico, lo pensi di default meccanico dentro, amante dei motori e delle auto da corsa, certo non con velleità poetiche, per quello penso che dobbiamo sempre avere uno sguardo lungo e malleabile, nei confronti degli altri.
Un grazie alla simpatica Vanessa Paradis, occhi stupendi, che dimostra come si possa essere belli e seducenti, intabarrati come neanche i nostri nonni, e senza essere torturati con impalcature dentali, morsi e ganci e byte, la bellezza non è una cosa così scontata, tantomeno legata alla perfezione, vedi appunto Sharon Stone, che ho accolto con stanchezza, sempre bellissima, ma cos’altro dà?
Insomma, come si dice di alcune persone umane piuttosto bruttarelle “però ha dei begli occhi”, il film è guardabile, e poi, anche se è con e non di Woody Allen, mi sembra di trovare il suo tocco anche nelle musichette , dicasi colonna sonora, che lo accompagnano, e sono quei “begli occhi” di cui sopra.
Una cosa che mi chiedo, perchè chi fa il traduttore di titoli in italiano, non cambi mestiere.