Non ho potuto chiamarti, anche se lo smartphone porta ancora il tuo numero, e l’ultima telefonata prima che te ne andassi per sempre.
Forse te ne avrei scritto già ieri notte, senz’altro ti avrei chiamato oggi per raccontarti.
Mi trovavi sempre sciocca perchè al Van Ghè non volevo parlare o essere chiamata per i ringraziamenti dopo la tua presentazione degli autori, anzi, la tua regia.
Mi rimproveravi per la mancanza di autostima, di fiducia in me stessa.
Mi dicevi da sempre che scrivevo molto bene, ma non ero una scrittrice, ed ero d’accordo con te, non ho una storia dentro che pulsa. Scrivo i miei quadretti, non saprei fare altro. Però, se li avessi raccolti in un libro, lo avresti presentato volentieri.
Mi fa sempre sorridere, rileggerti “il 24 sera, come annunciato eoni luce or sono, io ti chiamerò al proscenio, tu avanzerai senza fare sorrisini di timidezza preventivi e successivi, prenderai l’applauso del pubblico e te ne tornerai al posto. Tu fai troppe cose perché ti s’identifichi con quel che sei, quanto dire il direttore artistico delle serate letterarie. Così ti qualificherò io, da domenica 24 in avanti ”
Ecco, ieri mi sono vinta. Ho letto in pubblico, due pezzi del mio blog, in piedi, in bella vista.
Mi sono vinta ma non abbastanza, perchè non ho avuto il coraggio, non mi sembrava mai il momento, di dire che speravo di non fare una figuraccia perchè volevo dedicare questo momento a Giovanni Choukhadarian, l’amico che mi aveva sempre spronato ad avere fiducia in me stessa e a non stare in un angolo, l’amico che in febbraio se ne è andato via su un arcobaleno, e manca sempre tanto … ecco, Giovanni, ho provato a fare come dicevi tu.
Ero emozionata, ho letto troppo veloce, ma mi sembrava che quello che leggevo piacesse abbastanza al pubblico. A momenti mi cadevano i fogli, mi tenevo con un dito al leggio e sentivo il leggio spostarsi e temevo che cadesse, avevo una fretta immotivata, ma nessuno mi diceva di fare in fretta se non l’emozione dentro di me.
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Qual è il senso?
E’ un periodo di insoddisfazione, che non mi sento di definire come una soglia di depressione, perchè non sono passiva, arresa, continuo anzi a guardarmi in giro, pensare, arruffarmi in cerca di soluzioni e strade
Il fatto è, che da quando ho smesso di lavorare, la casa mi va stretta.
Non amo le faccende domestiche, non mi dispiacciono, preferisco però quelle dove si può esercitare un po’ di creatività, come cucinare, riordinare, mi piacevano ricamo uncinetto ferri… mi piacciono ancora, ma non ci provo neanche, fino a che non avrò ripassato tutta casa per svuotarla di cose, è grandina ma piena di cose, e fino a che avrò urgenze che mi chiamano fuori; per fortuna, non mi annoio mai, e una vita anche intellettuale non mi manca.
La casa mi va stretta perchè vorrei avere un panorama, magari d’acqua, meglio di tutto il mare, o almeno uno stagno con una famiglia di paperelle.. un panorama che si muova. Vorrei avere un fazzoletto di giardino, non troppo grande, invecchio, non ringiovanisco, non mi vedo a dissodare zolle, ma a tagliare l’erba sì, seminare, togliere qualche erbaccia, seguire la crescita delle piante, lo sbocciare dei fiori, la farfalla, e Zampi e Frecciarossa felici che puntano lucertole e uccellini, senza acchiapparli, e il Boris che invecchia al sole roteando le orecchie. Magari far colazione fuori invece che in cucina. Mi andrebbe bene anche una terrazza, una veranda, non il piccolo balconcino di cucina, non la casa in oltrepo piena di crepe, che è là, ma io vivo qua, non il parchetto pubblico sotto casa.
Non so bene dove lo voglio, questo. Vorrei stare al mare, ma il nucleo della famiglia sembra aver bisogno che stia qua, e poi là, sarei troppo sola forse..invecchio, non ringiovanisco.
Ho bisogno un po’ di vita naturale, fatta di cose semplici, non il naturale dei preparati che vendono in erboristeria, di prodotti biologici.
Guardo la vita come si vive adesso, migranti migranti deficit tasse bilanci clima animali in estinzione incendi siccità, mi chiedo, ma era quello che voleva Dio quando ci ha creato? non so, non credo che ci volesse tutti all’inferno.
Quale è il senso? la terra si evolve, le specie scompaiono, gli uomini infestano, noi da agricoltori pastori ci stiamo robotizzando, sempre più persone pare scelgano di inserirsi microchip, tra un po’ sarà una moda come tatuarsi, certo scelgo di restare s-tatuata e s-microchippata, resiste il più forte, il diritto a esistere e respirare sta diventando un privilegio…
che sia una grande gara, l’ultimo che rimane su una briciola di pianeta Terra galleggiante nello spazio – uomo o topo che sia – ha vinto? vinto cosa? forse, lo attendono a giocare su un altro pianeta per le finali?
Appunti sulla delusione.
“Niente ferisce, avvelena, ammala, quanto la delusione.
Perché la delusione è un dolore che deriva sempre da una speranza svanita, una sconfitta che nasce sempre da una fiducia tradita cioè dal voltafaccia di qualcuno o qualcosa in cui credevamo. E a subirla ti senti ingannato, beffato, umiliato. La vittima d’una ingiustizia che non t’aspettavi, d’un fallimento che non meritavi. Ti senti anche offeso, ridicolo, sicché a volte cerchi la vendetta. Scelta che può dare un po’ di sollievo, ammettiamolo, ma che di rado s’accompagna alla gioia e che spesso costa più del perdono”. Oriana Fallaci
Quante volte ho provato questo miscuglio di sentimenti? la Fallaci li esprime benissimo come li stesse vivendo nel momento in cui scrive, o si fossero appena quietati.
Certo che, rilette con attenzione dopo il primo entusiasmo, queste parole che ho pescato nel web e che credo rispecchino anche stati d’animo di molti, diventano in realtà un po’… deludenti, quasi bambinesche, “E’ stato lui!” indichi col ditino tra le lascrime. Cioè, il malessere c’è, ma quanto giustificato sia, è da vedere, certo la sensazione dolorosa arriva senza chiederti il permesso, però poi ci si può e ci si deve ragionar sopra, agire su di noi, elaborarla, come si dice.
Già il pensiero che per una delusione potresti perdonare o vendicarti, non ha sempre ‘sto gran senso, non bisogna confondere il sentimento con il risentimento.
La delusione spesso nasce da un’aspettativa, non necessariamente nei confronti di una persona ma anche di eventi e successi, e non è necessariamente colpa o responsabilità altrui o del mondo del malinteso, se ci si aspettava cose che non potevano essere o che altri non sono in grado o non intendevano darci, cosicchè della delusione possiamo esser noi stessi la causa, se ci si trova a viverla non è detto che sia per forza subìta. Anche, una persona di cui si ha un’idea, nel tempo si dimostra diversa da quel che pensavi… ti ha deluso lei, o semplicemente tu l’hai conosciuta? Cioè, la delusione, se può starci come sentimento, come risentimento non è sempre giustificato.
La vendetta mi è sempre sembrata una sciocchezza, una piccineria, la sento lontana, poi per vendicarsi bisogna pensarsi importanti, ed è un pensiero che non riesco ad avere, di me: meglio che la delusione sfoci nella rassegnazione, più rispettosa degli altri e di se stessi, e questo non è perdonare. Si perdona quando si è ricevuto un torto… ma deve esser perdonato qualcuno qualcosa perchè non è come pensavi?
Certo la delusione sembra essere diventata virale, per usare un termine tanto di moda, quasi facesse parte dell’aria che respiriamo, non so se sia la “crisi” economica, o la difficoltà di muoversi, collocarsi in un mondo che sembra sempre più complicato ed affollato.
Mariangelona
A saperlo, mamma, l’ossigeno te lo facevamo respirare prima, o forse bastava un po’ di cortisone, sembra che tu abbia dismessa la scontentezza che ti accompagna da quando mi ricordo di te, che non andava mai bene niente, sei perfino sorridente, e non piangi come facevi spesso prima di stare male.
Mi rimproveravi che ero cattiva, che non capivo quanto soffrivi relegata nella casa di riposo, non avevo parole carine e, soprattutto, non ti davo un bacio quando arrivavo e quando andavo via, dimenticandoti che non sono mai stata espansiva, e che se venivo sempre nei fine settimana, qualcosa voleva dire, anche se non ti baciavo.
E’ quasi preoccupante vederti meno brontolona, e remissiva, questo per te sarebbe l’esser fuori con la testa? che se ci fosse ancora il papà direbbe che sei sempre stata un bastian contrario, che ti eri messa a fumare in tempo di guerra, quando non si trovavano le sigarette e bisognava prenderle alla borsa nera.
Ma tu non sei tu fuori con la testa, è la tua vecchiaia, i tuoi cento anni il 20 gennaio 2014.
Tu continuavi a dire che non volevi festeggiarli, e volevi morire prima.
Da anni dici, in novembre, che muori, che in novembre è morto il papà, le due tue figlie, novembre è il nostro mese, e giovedì scorso sul finire dell’ottobre hai fatto la prova, ci hai fatto spaventare, forse ora sei più serena perchè hai visto che non eri sola, continuavi a dire che non volevi morire nel letto lì da sola.
Ossigeno, cortisone, antibiotico alle due del pomeriggio, e già alla sera facevi di nuovo le smorfie dietro all’infermiera, quella che dicevi che sembra una scimmietta, forse non ti avrà sentito, perchè lei ti chiama Mariangelona.
Ma te sei tremenda con le infermiere, mamma, lasciatelo dire… oggi ce l’avevi con l’infermiera che voleva convincerti a stare sulla carrozzina e a non andare già a letto, dicevi che è diventata prepotente, prima era simpatica. Quando è passata in corridoio, hai detto a voce troppo alta ” Ecco quella strega”, ha sentito ed è andata via ridendo con qualcuna, ridendo e ripetendo Ha detto strega. Ma mica ti è bastato, quando la sudamericana ti ha portato il the, mentre usciva dalla stanza tu inclemente hai detto “questa è brutta ma simpatica” … in un solo turno te ne sei giocate due, di infermiere.
Oggi nel salone suonavano Violino Tzigano, e tu non c’eri, non c’eri neanche di sopra a fare merenda… eri nel letto, in penombra, e con la TV spenta…mi spaventi così, sai mamma?
Prima brontolavi sempre, telefonavi cinquanta volte perchè venissimo lì a mangiare puntuali… oggi non avevi telefonato impaziente perchè non arrivavo ancora. Vedi, però ora che non brontoli, ora che Highlander è vulnerabile, appari indifesa, è più facile preoccuparsi per te. Anche ora, mi sto chiedendo se stai dormendo, o hai di nuovo scambiato il giorno per la notte, e non capisci perchè ti tengono al buio… non mi hai ancora chiamato come l’altra notte, credendo fosse mattino, dicendomi che stavi morendo, che pensavi di toglierti dal pasticcio invece no, forse morivi. Tra due giorni, però, doveva cominciare novembre, mi hai detto lo scorso martedì quindi tra due giorni saresti morta. Sconsolata hai detto alla Monica del bar ” Si vede che non mi vogliono neanche lassù”
E’ un po’ come se avessi staccato gli ormeggi dagli orologi, e stessi fluttuando nel tempo, oggi ti aspettavi cominciasse l’estate e tuo figlio aveva 95 anni, dice sempre di sentirsi vecchio, mi hai spiegato.
Io e il Vescovo di Roma
Lo sentivo, che non mi avrebbe tradito, lo aspettavo a varco, avrebbe dovuto dire qualcosa sui gay, prima o poi, e in questo viaggio di ritorno dal Brasile, si è espresso sui gay, non solo quelli del Vaticano, e sul ruolo della donna nella Chiesa. Ha parlato anche d’altro, ovviamente.
Non credo affatto che il Vescovo di Roma sia un’operazione mediatica della Chiesa, lo ascolto e gli credo, d’istinto, e di solito ho un buon istinto.
E poi deve avermi letto quando ho scritto che il problema sono le lobbies, non i gay.
Penso che non sia il solo, con queste idee, all’interno della Chiesa, forse è il solo ad avere visibilità. Speriamo, Gesù mi è sempre piaciuto, ma non ho mai amato le impalcature che gli hanno messo intorno, mi son sempre sembrate molto distanti e divere dalla persona di Gesù, sì, persona, poi il discorso so che può essere complesso, ma Gesù era persona.
c’ho un problema
cominicio a non riconoscere più questo mondo e questa vita
non c’è nulla di mio
non c’è un mio posto
mi stanno portando via tutto
la casa
la macchina
il lavoro
i soldi
il tempo
non conto niente
il mio fisico intanto degrada
non ho più forza
non riesco a pensare nulla
perchè tanto non è più possibile pensare nulla:
non si può fare perchè sono vecchia
o non bastano i soldi
Sughero
Ora, vorrei stare in un posto con l’acqua, magari a pescare, non importa se non prendo niente, mi basta aspettare che il tappo si muova, e pazienza se mi hanno già mangiato l’esca e sto lì come una scema a guardare il tappo, e l’acqua, e penso.
voce del verbo andare
Forse a tutti capitano quei momenti in cui non sei a posto da nessuna parte, e ti senti dentro un’angoscia continua che ti stringe, e non sai bene se vorresti urlare, o dormire, o essere accarezzata, o abbandonarti a un fluire di giornate tranquille anonime, ad evitare lo schianto.
Sono quei giorni che ti sembra di essere al mondo solo per arrivare al momento sbagliato, per dire la cosa sbagliata, anzi metà, perchè non te la lasciano neanche finire, come quello che sognavi di essere, di fare. Senti di aver dato tutto, e non hai più nulla che non sia vecchio, scontato, stanco, senti che comunque non basta, non basta mai. Vorresti andartene, e non lo sai fare davvero, non hai il coraggio, non sono solo l’età, la salute, il denaro, a fermarti. E’ questa l’insoddisfazione?
Il dolore di mia madre.
Andare a trovare mia madre non riserva molte sorprese. In genere come arrivo ha da ridire se tengo la giacca aperta e prendo freddo, ho fatto più tardi di quanto ho detto, anzi, aveva detto lei, e si è dimenticata l’ora che aveva detto. In genere vengo accolta dalle esclamazioni dei tavoli vicini “ha visto signora che sua figlia è arrivata?” e mi siedo al tavolo con un certo imbarazzo. Se mangio, non devo mangiare, e tante altre sue preoccupazioni di questo tipo.
Oggi, ancora uno dei suoi temi preferiti:
“Tuo fratello, tsè, è un bugiardo. Dice che mi telefona un giorno si e uno no, invece non mi chiama mai. E’ da quando ha quella donna lì che non è più gentile con me. Adesso lei ha la gamba rotta lo sai? La vendetta del cielo. ” e comincia a venirle il magone.
“Mamma no, dai, ogni volta dici è quella donna lì, adesso hai riabilitato la precedente, e va male questa, che quando eri da lui veniva sempre a trovarti, e cucinava, stava lì pomeriggi con te.”
“See see lui non è più il bravo figlio affezionato di prima. Ma io quanti anni compio?”
“Il prossimo gennaio sono cento, mamma.”
Ha un’aria incerta “Ma io pensavo i cento di saltarli, di compierne 91. Ecco, compirò 100 anni senza avere rivisto tuo fratello, mai più, non verrà mai più a Milano”
“Mamma, lui abita in Veneto e non sta benissimo, è appena stato qui la settimana scorsa, certo che verrà ancora, non può farlo spesso come vorresti tu.”
“Passo le giornate aspettando che varchi quella porta” dice accennando con la testa all’ingresso.” e non mi chiama mai, se non lo chiamo io”
“Mamma sai che non è vero” ormai la mamma piange “mamma lo abbiamo visto anche l’altra volta sul cellulare, ti ho fatto vedere le chiamate, che avete parlato”
“No, no, è un bugiardo, lui non mi chiama più”
“Mamma, ti stai facendo male da sola, vuoi ascoltarmi? Lui ti chiama, è qui sul cellulare, ci sono le chiamate col suo numero, quelle ricevute e quelle perse. Lui ti chiama, se non rispondi, ti richiama.”
Il discorso, giocoforza ad alta voce, si fa difficoltoso, non c’è verso di farle capire che non è come pensa lei. Mia figlia mi fa segno di lasciar perdere. Anzi si fa aggressiva. Sorride solo al bisnipotino “I bambini sono innocenti” dice, e io non sono per niente d’accordo, a volte sono crudelissimi “Adesso non rispondo più al telefono, così non può più dire che mi chiama. Perchè lui fa finta, mi imbroglia, pensa di farmi passare per scema, perchè sono vecchia. Non ho più un figlio. Devo trovare qualcuno che tenga il telefono e risponda quando lui chiama, così sente che lui non parla, che fa finta di chiamare, che rimane scritto sul telefono che mi ha chiamato, e se lo dice un altro almeno gli credete, che non sono io che sono scema.”
Singhiozza, e mi sento gli occhi addosso, come fossi la carnefice della vecchietta, invece non so come uscire dall’impasse, spiegarglielo, che il suo dolore è fondato su cose che inventa lei, per starci poi male.
Chiamiamo il suo figlio mio fratello, risponde, parla con la mamma. Poco dopo la mamma riprende a dire che è un sacco che non lo sente.
“Mamma, ma lo abbiamo appena chiamato”
“Ah si? E cosa mi ha detto?”
“Non lo so mamma, ci hai parlato tu”
Ci pensa su “Cosa vuoi che dicesse? Si certo che ti chiamo, stai tranquilla. E’ un bugiardo, non si fa mai sentire”.
E’ persa in questo loop, la sua mente appare come un muro impenetrabile, penso si renda conto che non si ricorda più bene le cose, e allora nega questa evidenza con tutta la sua forza. Alza le braccia, in segno di resa.
“Giuro, che io muoia qui all’istante se dico bugie, che tuo fratello non mi ha mai chiamato una sola volta.” A quel punto, mi aspettavo un fulmine che, ZOT , la colpisse, invece no, interviene con intento salvifico mia figlia, sua nipote diletta.
“Nonna, davvero eri triste perchè hai litigato con la vicina di letto? Me lo diceva la Rocio”
“Chi io? Non litigo mai con nessuno, adesso anche la Rocio mi prende per scema”
Insomma, ce ne è per tutti. Anch’io sono definita stronza, anche se con aria titubante perchè la parolaccia ai suoi tempi era forte, perchè difendo mio fratello che fa lo stronzo: fortunatamente qualche minuto dopo vengo riabilitata, solo io naturalmente.
Sono tornata a casa esausta, continuo a pensare a queste ore passate con la mamma, nelle quali ha quasi sempre pianto, convincendomi che sta meglio quando non ci vede, e non le viene invidia della nostra vita a casa nostra, e sicuramente nel suo tran tran quotidiano si perde più via. D’altra parte come si fa a non andare da lei che è così contenta quando ci vede… per i primi cinque minuti, e comunque anche in quei cinque minuti manifesta la sua felicità brontolando su qualcosa che facciamo, se no non sarebbe lei, è il suo modo di sentirsi utile, immagino, non la ricordo diversa.
Credo che la perdita di autosufficienza pesi tantissimo sul suo umore, come è comprensibile che sia, prima non piangeva così di frequente come da quando sta sulla carrozzina.
Alla sera mi chiama da un altro numero telefonico, le hanno prestato il cellulare, pare che il suo non funzioni più: mi chiede se lo ho bloccato in qualche modo quando ero lì perchè era arrabbiata con mio fratello. Ovviamente no…
Meglio pensare alle storie d’amore, ogni tanto, almeno.
Ro do tà Ro do tà un terzo degli italiani Napolita no Napolita sì Suicidi per il lavoro Ergastolo per il delitto Scazzi finite le gite in pullman sul luogo del delitto Monti for ever magari Andreotti la repubblica delle banane. Ognuno ha da dire la sua, non ho da dire niente, non ci capisco più nulla, è troppo oltre, il bianco e il nero, sovente scelgo il grigio, non è mica brutto, è un colore elegante e dignitoso. Ci vuole la rivoluzione, sicuro. In uno stato integrato in un mondo globalizzato non la vedo facile. Non la vedo facile neanche perchè una rivoluzione, dopo una breve tregua, cambierebbe solo i commensali alla mensa, l’italiano è fatto che se può approfitta, a partire dal cioccolatino che accompagna la tazzina di caffè – cerca subito di averne due causa la familiarità col barista. E alla mensa, loro non son cambiati, son rimasti lì, e sanno come far girare i piatti… o una rivoluzione rigira anche loro? E non lo so, e quando tutto gira, balla, ondeggia, e non sai a cosa credere, a me fa bene pensare alle piccole cose, per riprendere un po’ di forza, di ottimismo, di sicurezza.
C’è un equilibrio al mondo, o forse una volta c’era, prima che l’uomo diventasse infestante, che si preoccupa del tarlo asiatico e non vede cosa fa lui. Il problema dello smaltimento rifiuti è tutto suo, non c’è nulla in natura che non abbia la sua funzione, e mica dobbiamo insegnare noi alla natura cosa sia il riciclo.
Insomma, tutto questo per dire che, lasciata per ragionevolezza la casina di Pallanza, un pochino di anima mi è rimasta lì, uno di quei luoghi che conosci come ti fossero già appartenuti in una vita precedente. Il lago Maggiore fa parte della mia infanzia, della mia crescita, è paesaggi, nomi, colori profumi, ricordi… una specie di ventre materno, che non ho bene idea di come sia, perchè mia madre non è mai stata una di quelle madri lì, che ti avvolgono ti rassicurano e non ti fanno temere nulla, ti ovattano. Mica perchè fosse una madre ruvida e tosta, poco incline alle tenerezze. Era poco incline e basta, formalmente presente, ma non era egoismo o indifferenza, era semplicemente il suo massimo. A Pallanza, se vuoi, puoi fare un sacco di cose, c’è il lago, la piscina, il tennis, le passeggiate, le gite in battello sino a ovunque, e il retro, Verbania, con tutto quello che può offrire un capoluogo di provincia sul filo di essere abrogata. IA me piace lasciar scorrere lentamente la giornata, e guardare il lago, scevro da affanni orari e scadenzini. E’ così che ti accorgi di quanto succede sul pelo dell’acqua, tra i volatili che vi galleggiano. Perchè chi passeggia, dice oh le anatre, e non si accorge che sono anatre folaghe e svassi, oh il cigno, perchè è grande e bianco. E i gabbiani sono di due o tre specie, credo. E i piccioni, i passeri e i merli. E l’usignolo lo sentivo di notte. Le oche sono tutte sparite dal porticciolo, e non so come, non voglio pensarlo.
Insomma, noi non sappiamo dove va l’Italia, non so che fine farà neanche il mio, di lavoro. Però loro sono lì, e forse neanche per loro le cose scorrono facili, ma non lo danno a vedere.
Sono tornata lo scorso week end sul lungolago, dopo qualche mese di assenza.
La primavera prende in giro noi ed anche loro, è la stagione degli amori, ed io spero che sia per questo che le papere sono meno numerose, che siano a covare nei nascondigli che non ho mai scoperto. Le anatre rimaste non hanno molto appetito, e quando sulla terraferma afferrano un pezzo di pane secco, diligentemente si dirigono verso l’acqua per pucciarlo e ammorbidirlo. Volano molto, fanno voli di coppia, lei in dimesso nocciola e lui in elegante verde blu grigio cangiante , e planano sull’acqua, prima lei, poi lui, forse è una forma di corteggiamento.
Svasso e svassa, a breve distanza tra loro, si pettinano e si toelettano, per l’occasione il ciuffetto nero deve essere in bella mostra. Fanno finta di vedersi solo in quel momento, ben acconciati, e si corrono incontro, e cominciano la loro danza dei colli, da lontano sembrano formare un cuore. Poi, nuotano insieme per un piccolo tratto, e si tuffano sott’acqua. Quando si sposano, ed in questo assomigliano ai cigni, è per sempre, e allevano con cura i pulcini, che sono al massimo due; il cigno ne fa qualcuno in più, mai tanti quanti l’anatra, che però è una madre un po’ distratta… non rincorre i piccolini che si allontanano, semmai sono quelli che restano indietro a nuotare veloci e pigolanti per raggiungerla.
Ma ci sono anche otelliane scene di gelosia. Sul lungolago bazzicano tre cigni. Una coppia e un single. La coppia l’anno scorso non aveva pulcini… quelli degli anni scorsi sparivano, pare li rubino, e mi immagino il dolore dei genitori, secondo me lo provano… Allo stesso modo penso che debba soffrire il cigno single, sempre solo. L’altra domenica c’erano i due cigni nel porticciolo, ed avevo dato del pane al cigno single appena fuori.
La coppia esce nel lago aperto, ed il cigno-lui si gonfia e tutto piumoso si dirige nuotando contro il presunto minaccioso intruso, e lo costringe ad abbandonare i bocconcini di pane…. nuota via veloce, e l’altro dietro, si alza anche in volo, poi volano pesanti entrambi, uno in fuga e l’altro aggressivo, planano sull’acqua, e il “marito” sempre dietro, lontano, sempre più lontano… scompaiono entrambi dietro l’isolino di San Giovanni, e finchè sono stata lì non si sono più visti.
Il profumo di caffè.
Il profumo del caffè quando apro la vecchia scatola di latta nera, ed il coperchio ermetico. Una delle poche cose sopravvissute negli anni, con la caduta in disuso delle torrefazioni, dove il caffè lo si comprava in sacchettini, e te lo macinavano sul momento.
Ai tempi, bere la sambuca con la mosca era ancora facile. Non sono una bevitrice di sambuca con la mosca, ma suppongo ora si sia fatta una faccenda complessa, devi rintracciare una torrefazione per comprare una manciata di chicchi di caffè, oppure il super ti dà l’opportunità di comprarne una confezione da minimo 250 g, ottenendo così una quantità di mosche che ti seguirà tutta la vita, il loro aroma no, però.
Posso affermare con sicurezza che i barattoli sono gli stessi, perchè quand’ero ragazzina li ricoprivo di carta colorata e ne facevo portamatite. Poi anche questo svago creativo divenne inutile perchè una marca di caffè, forse Suerte, forse Splendid, aveva inventato i barattoli non più di latta, ma di plastica, e tutti colorati. Mia sorella ne era gran consumatrice, e son di quelle cose indistruttibili che alla lunga diventano imbarazzanti. Il primo dici, oh che bello ci metto le matite. Nel secondo i pennarelli. Nel terzo forbice, righello. Nel quarto, i pezzi piccoli del Lego. Nel quinto, le sopresine dell’uovo kinder dei bambini, ma solo quelle che si disfano sempre. Poi, i bottoni. Poi le viti, le viti con la testa a croce, cioè la soluzione salomonica all’antico dilemma delle monetine. Insomma, l’invasione degli ultracorpi era uno scherzo al riguardo. Credo di averne ancora nel box, e son passati più di quarant’anni.
Insomma, a me piace aprire il barattolo del caffè, per il profumo che si sprigiona. Al venerdì sera le caffettiere le preparo quasi tutte, un esercito di cinque, esclusa quella grossa grossa, la mattina del sabato è un avvicendarsi alla colazione. Ci verso l’acqua, la livello, ne esce un po’ sul piano di granito della cucina, resta invisibile, del resto essere invisibile è il suo lavoro da acqua pulita. Prendo la polvere, la sistemo nella caffettiera, livello anche quella. E’ un rito, va seguito lentamente, con compunzione. Un po’ di polvere di caffè sfugge, cade nell’acqua, vi galleggia, in una relazione impermeabile e senza futuro. E’ un rito, ed i gesti abituali non occupano la testa, e consentono di pensare ad altro e restare in silenzio, col cucchiaino che spiana le montagnette brune, e debbo pensare tanto, no, qualcosa di meno creativo, debbo fare considerazioni e trarre conclusioni.
senza titolo
La solitudine è un sentimento strano e contradditorio, non a caso ti coglie quando sei in compagnia, o sei in mezzo a una folla, e poi esser soli, proprio soli non è facilissimo. Perchè quando ti senti solo, tu non lo sai, ma c’è magari qualche affetto in giro che tu non hai mai immaginato, e sbuca che tu non lo aspetti. Ma la solitudine non c’entra neanche con l’affetto. Forse c’entra con la paura. Io ho paura. So anche che le cose le affronto, ma non è che non le tema. La solitudine peggiore, forse, è sapere che nessuno può aiutarti, e tu non sai da che parte andare. Di là c’è la paura, di qua, un muro.
Mi ritrovo al buio, con la luce del pc e una lampadina fioca, perchè andandosene a dormire il capofamiglia ha spento lo spegnibile. Me no, non c’è ancora riuscito, qualche volta ci va vicino.
Sento lontano rintocchi leggeri, di una campanella, guardo l’ora, 0.01. Un pizzico di paura ce l’ho, il paranormale è sempre stato affascinante, forse un po’ ci credo. Poi mi ricordo, sono i riti buddistici del capofamiglia, seguirà la litania, il cane chiuso fuori dalla porta della camera.
Vorrei ci fosse ancora mio padre, la sua esperienza… la certezza che penserebbe il meglio per me. Mi protegge. E’ via dal mondo da quasi trent’anni, ma sono sicura che mi darebbe i consigli giusti. Sono sicura che non si stupirebbe di Facebook e degli immigrati e di Moody’s.
Il meccanismo è sempre lo stesso, è inutile che ce lo nascondiamo, che appaiano i Grilli e così. Adamo ed Eva, Caino e Abele, Esaù e Giacobbe e i mercanti nel Tempio si ripeteranno all’infinito.
Così, scherzando su Facebook ho riascoltato Elettrochoc, suonata da Mauro Sabbione, e mi son trovata a desiderare che non finisse mai, avrei voluto esser di nuovo immersa nel concerto di sabato scorso. La musica a volte questi scherzi li fa, che ti commuovi. Un po’ come quando vedo il mio lago.
Pensieri senza titolo.
Questo video debbo averlo già postato nel blog, anche se non lo trovo.
Mi rifugio qui, quando mi sento un po’ con le orecchie basse: nel 1969 si voleva cambiare il mondo, si pensava a un futuro. Oggi questa vitalità, questo slancio mi sembra smorzato assai, tutt’intorno, perfino l’uso delle droghe ha cambiato significato, da esaltante, ora mi pare solo un sintomo di frustrazione.
Nel 1969 avevo 14 anni, frequentavo la quarta ginnasio con risultati alterni, ero sempre stata custodita in famiglia e non avevo grande idea del mondo esterno. Avrei fatto conoscenza con il rock, con chi usava il fumo, e anche LSD, avrei visto il mio compagno primo della classe, farsi crescere i capelli, poi tossico, andarsere a vivere, alla fine del liceo, in una casa okkupata.
Non sono mai stata hippy nè contestatrice sessantottina, nè ho mai apprezzato la ricerca di alternative in sostanze estranee, però osservavo, leggevo, ascoltavo, ci rimuginavo, e l’ipocrisia, e il sesso, l’anarchia, e la natura, e la spontaneità… insomma credo di aver rielaborato, di essermi fatta tutta una mia scala di valori, che mi porto dietro tuttora nella mia vita borghese, sempre stata borghese, e mi piace, la mia testa libera, almeno, così me la sento. Le cose si cambiano anche standoci dentro, non occorre per forza essere contro.
non è addio al lago
Ho finito di fare gli scatoloni, ho disfatto la casetta che mi piaceva tanto. Non è proprio ancora distrutta, ha una sua funzionalità stile campeggio, con slalom tra pile di scatole, per tornarci un ulteriore week end.
In questi giorni mi hanno fatto compagnia il caldo e la malinconia.
Il lago, non lo perdo, neanche le paperelle e gli svassi, che perpetueranno qui le loro stirpi.
Perdo un angolo mio, semplice e non lussuoso, dove stavo tranquilla, dove nessuno mi distruggeva nulla, a parte le oche del porticciolo scomparse, erano sette quando sono arrivata qui nel febbraio 2010, e le sparizioni dei cigni pulcini.
Un posto bello, e dico sempre che il bello fa bene.
Esci di casa, c’è la piazza, il lago, l’imbarcadero, una pianta di camelia fiorita anche d’inverno, le azalee in primavera, gli oleandri e le magnolie d’estate. L’ aria profuma di fiori o di legna dei camini, le rondini fanno casino al mattino, e verso sera i gabbiani, di notte l’usignolo.Spuntano in primavera, come le primule sui prati, le barche sullo sullo scivolo del lungolago, e quelle ormeggiate alle boe. d’inverno le sostituiscono i gabbiani, che restano a terra. I piccoli svassi, li vedevo ieri dal mio tavolo del bar dell’imbarcadero, hanno perso il piumaggio picchiettato e hanno ora le penne e i colori dell’adulto, un abbozzo di ciuffo, ma pigolano ancora chiedendo il cibo al genitore, sempre più spesso però si tuffano sott’acqua in cerca. Non ho fatto gite, escursioni, le nuotate le conto sulle dita di una mano. A me basta guardare il luccichio e i colori dell’acqua, i contorni del panorama che conosco sin da bambina, è uno strano senso di protezione che mi pervade, che non ho più da quando è mancato mio padre, tantissimi anni fa…è qui che ti ritrovo, papà, in questo mondo qui… per questo non sono mai venuta al cimitero, non eri lì, no.
Storie vive.
Il mio lago non è solo lo scintillio dell’acqua sotto il sole, e i battelli d’antan, ed il colore dei fiori, e le inquadrature offerte dalle lunghe palme. Ho imparato a conoscerlo come una sorta di teatro, il domestico lungolago di Pallanza racconta un’infinità di storie, se ti fermi a guardare.
Nel porticciolo nuotava giorni fa una papera madre di tre pulcini, ed uno di essi si allontanava sempre, restava indietro, andava avanti… la madre sembrava incurante, il piccolo si era perso tra le barche ormeggiate e non la trovava più, nuotava pigolando disperato, ma il resto della famiglia sembava non sentirlo. Ero preoccupatissima. Finalmente ha scorto la madre, sull’altro lato del porticciolo, ed ha fatto una traversata che sembrava un minuscolo motoscafino, con tanto di onde ai lati, per raggiungerla. L’altro giorno, una papera nuotava con tre piccoli nel lago aperto, ed uno si allontanava sempre… ma non c’erano le barche a nascondergli la mamma e i fratellini, mi sembrava di conoscerli. O no?