"Allora Giuseppe oggi c’è il tavolo?" è domenica pomeriggio, è sola, G. di passaggio a Milano è già uscito per andare dalla sorella in ospedale e poi da suo figlio.
La signora anziana seduta sul divano lascia il cordless sul cuscino, intreccia le dita in grembo, e aspetta, aspetta non sa cosa, la sua vita è lunga, e sono lunghe le giornate.
Accende la televisione, sente le notizie di borsa, sospira, e telefona alla figlia
"Non sarà meglio prelevare tutto e metterlo sotto il materasso? Mi ricordo che con il papà c’era un periodo che nelle banche potevi prelevare solo poco"
"Non so che dirti mamma, non credo siano più possibili quelle cose. Ma se vuoi li prendiamo, chiedi magari a G"
E’ quasi ora di andare al circolo, la vecchia, fiera dei suoi novantaquattro anni e nove mesi, si sistema allo specchio i capelli argentati, si mette il rossetto e stira un sorriso per vedere come sta.
"Pronto, taxi? "
Controlla di aver chiuso tutte le finestre, chiude a chiave la porta e si avvia con il suo bastone.
Nell’androne tirato a lucido scivola, e cade.
E’ ancora tutta intera, ma non ce la fa ad alzarsi, e non passa nessuno, e sta arrivando il taxi.
Riesce a remare sul pavimento fino allo zerbino, in prossimità del portone, e col bastone schiaccia il pulsante dell’apriporta.
Si spinge ancora un pochino più avanti, riesce ad aprire un poco il portone, e agita il bastone all’esterno e grida "Taxi, aiuto!".
Il tassista, in attesa, sente la voce, vede il portone semiaperto e quel moncherino di bastone che si agita raso terra, e accorre.
Solleva la donna "Signora, la porto all’ospedale?"
"No, no, al circolo!"
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sono contenta!
Sono riuscita a scrivere un po’, la storia l’ho in mente… ho cominciato e le cose vengono da sole!.
(on the air Panama di Ivano Fossati)
guerra ai piccioni
Come aperitivo, in attesa di finire il post che ho in gestazione, propino uno dei pochi racconti che ho scritto per il corso di scrittura, primavera 2005… coraggio, sono solo tre cartelle.
GUERRA AI PICCIONI
La madre aveva chiesto aiuto a Guendalina, le sue forze di anziana signora non erano sufficienti a contrastare l’invasione dei piccioni sulla terrazza.
Mentre Guendalina preme il pulsante del citofono, il suo sguardo corre come sempre all’etichetta dove quei nomi non ci sono più, Rossi Colombo. Massimiliano Rossi, Anna Colombo. Una coincidenza, Colombo e piccioni, come una coincidenza era stato che il fratello acquistasse quell’appartamento, nessuno in famiglia aveva mai saputo di quella sua storia.
-Ciao mamma, sono qui.- deve gridare per farsi sentire. Era andata già bene che avesse sentito il suono del citofono, altre volte doveva avvisarla col telefono, sentiva lo squillo perchè l’aveva sempre vicino.
Tutte le volte che andava da sua madre non poteva fare a meno di pensare a quando aveva suonato alla porta dell’appartamento due piani sopra, una mattina di tanti anni fa, alle otto e mezza, orario d’ufficio, e Massimiliano aveva aperto la porta in pigiama… non c’era bisogno di strategie, sapevano entrambi quello che sarebbe successo.Poi sarebbero andati al lavoro, finite le quattro ore di sciopero.
La porta si apre, Guendalina si trova subito immersa nella coltre di fumo che, come al solito, impregna l’intero appartamento. La madre, nonostante la veneranda età ed a dispetto di tutti i dottori, fumava accanitamente, e apriva poco le finestre perchè temeva il freddo. La mamma quasi l’assale raccontandole ansiosa per l’ennesima volta i disastri e la sporcizia di quelle bestiacce, contro le quali pare non ci sia alcun rimedio. Guendalina si dirige sulla terrazza coperta, “una desolazione,l’avessi io una terrazza così” rifletteva guardando l’ammasso di cose cui nessuno dopo il trasloco si era mai preoccupato di trovare un posto, o di far riparare. Il fratello maggiore viveva altrove, la mamma era troppo anziana, e lei non trovava neanche il tempo da dedicare a sè.
-Stai attenta a non cadere!
-Sì mamma- “manco avessi due anni” pensava Guendalina sulla scala cercando di agganciare una rete, piantando dei chiodini da un estremo all’altro della terrazza. Poteva vedere ora “quella” finestra. Le lenzuola disordinate intorno a due corpi giovani, lui che la bacia sulla fronte e mormora “mi sto innamorando di te” e lei sfiorandogli la bocca “non devi”.
Un sospiro struggente, bisogna chiudere quegli spazi tra gli scatoloni contro la parete, quei maledetti ci stanno facendo il nido. Meno male che la mamma è andata a vestirsi, ci metterà un po’. Guendalina si sporge dalla ringhiera, per cercare di spiare cos’hanno fatto gli altri inquilini contro gli indesiderati ospiti. Niente di originale, grandi baluginii di carte stagnole, cui i piccioni si sono da tempo assuefatti.
Il lavoro è terminato, bisognerebbe avere voglia di mettere ordine anche in quell’accozzaglia di oggetti. Pensierosa Guendalina si siede su una sedia azzoppata e appoggiata alla balaustra guarda il giardinetto, con le immancabili ortensie e l’oleandro. Sapeva che si era separato da Anna, qualche anno dopo aver avuto una bambina, che aveva avuto un infarto. Massimiliano si era sposato giovanissimo. Allora avevano lui 25 anni, e Guendalina 23, si sentivano al telefono spesso per lavoro ed avevano deciso di conoscersi: non aveva scherzato, lui era davvero bello, alto, biondo e con gli occhi azzurri. Panini fuggenti nella pausa, incontri all’uscita del lavoro, interminabili camminate tenendosi per mano, baci sulle panchine dei giardini, lei impacciata più di lui, nel timore di essere visti, fotografati e pubblicati sul Corriere col titolo“Primavera in arrivo nei Parchi della città”. Lo scoiattolo apparso al Parco Sempione,il gelato alla sera in via Torino “non preoccuparti di cosa dico a mia moglie”, e i genitori “Ma Guendalina, con chi esci”, “I soliti, il solito gruppo”. Lei in vacanza al mare con la sorella, lui con la moglie, il difficoltoso appuntamento quotidiano telefonico. Guendalina cominciava a sentirsi sempre più a disagio nella finzione, non voleva far soffrire nessuno, neanche Anna che aveva intravisto una sola volta. E queste faccende prima o poi portano sofferenza. Nei due anni successivi gli incontri si erano fatti più difficili, ma non si erano mai detti che era meglio lasciarsi nè che Massimiliano dovesse separarsi. La loro storia si era via via sfumata, si era interrotta quando Guendalina aveva rinunciato ad attendere il Principe Azzurro, in cambio di un più concreto matrimonio, che ora non funzionava più.
In un modo o nell’altro, ne era certa, avevano sofferto tutti lo stesso.
-Guendalina cosa fai li così, non hai freddo così ferma?
-No, mamma, sono solo un po’ stanca, usciamo ora, così facciamo la spesa insieme.

l'unico momento di gloria…
Visto che in questi giorni ho scritto poco, per causa di forza maggiore… beccatevi questo.
E’ un racconto che ho scritto nel 2005 per il concorso del Corriere della Sera “Vivimilano” , che sarebbe l’inserto del giovedì, l’argomento era una pagina su Milano, massimo due cartelle, cioè 60 righe… è stata una soddisfazione, non ho vinto niente, ma è stato tra i 100 pubblicati (ne erano arrivati più di 3.000…). Beh, dopo non ho combinato più niente, comunque. Il titolo tutto sommato c’entra quel che c’entra…..
LA FRETTA.
E’ cosa risaputa, il milanese ha sempre fretta. Mai come un pensionato in coda, o la vecchietta con un pacchettino in mano che alla cassa del supermercato vuol passare avanti, ma queste sono altre storie. Tuttavia a Milano esiste una forza inesorabile, in grado di bloccare la corsa del cittadino, lasciandolo indifeso alla mercè dei suoi stessi pensieri: l’ATM. Ma da qualche tempo a questa parte, in grado di contrapporsi, un’altra potenza è dilagata ed accorre in difesa del milanese affinchè possa ancora una volta evitare di trovarsi troppo solo con se stesso: il telefono cellulare. Non devo lasciarmi sopraffare da sentimenti di inutilità, di solitudine, rendendomi conto che io, solo io, alla fermata dell’autobus che sta tardando ad arrivare, non ho nessuno da avvisare freneticamente dei miei cinque minuti di ritardo, neanche l’ufficio, lo so che va avanti lo stesso.
Il Garante della Privacy su un mezzo pubblico non può che prendere coscienza della relatività del proprio incarico e strapparsi i capelli.
Mai come su un autobus si viene a conoscenza dell’orario in cui i viaggiatori amano lavarsi sotto la doccia, delle loro amicizie, inimicizie, suocere cognate… e scappatelle. Sono rimasti in pochi, di solito gli anziani, a guardare ancora ancora fuori dal finestrino, chi sale, chi scende, e commentare i lavori stradali in corso col vicino sconosciuto, tanto un discorso generico di lamentela attecchisce sempre. Tutto, pur di non rimanere soli con se stessi,e pensare.
Esiste ancora un luogo dove il telefono cellulare fatica ad esercitare il suo prepotere sulla mente umana, ma ancora per poco: il tunnel della metropolitana. Chi non ha da leggere, o conoscenti con cui parlare, guarda avanti a sé con sguardo vitreo ed indifferente. Non si può osservare qualcuno con attenzione, ci si farebbe subito accorgere, l’ambiente è ristretto, mette a disagio. Sguardi attentissimi fissano il palo al quale si tengono con la mano: quelli con la vista migliore vi riescono a leggere qualcosa scritto in verticale… W… W la… Lo sguardo imbarazzato si sposta:forse sono più sicuri i graffiti sulle porte, almeno , sono indecifrabili, uno pensa quello che vuole, magari c’è scritto qualcosa di intelligente.
Non è più l’ora di punta, il vagone della linea gialla è semivuoto. Il rumore di fondo del treno è sempre consistente, due persone vicino alla porta si parlano urlando, tutti li ascoltano ma fanno finta di niente.Scendono. Entra un suonatore di fisarmonica con il suo accento balcanico e allegro annuncia “musica italiana piace a tutti, grande maestro, picola offerta”. Attacca con brevi pezzi di vecchie canzoni italiane che scorrono via l’uno dentro l’altro, tutti i viaggiatori sono seduti, che guardano fissi davanti a sè. E se tutti si alzassero e si mettessero a ballare, e le loro figure nere intrecciandosi e ondeggiando a tempo diventassero sempre più luminose…. Nessuno si è mosso, nessuno ha danzato, eppure per un attimo… Il suonatore insiste “faccio anche bella musica russa”. Il vagone è popolato da statue di gesso, deluso prende la mia moneta profondendosi in auguri di tanta fortuna.
SCENE DA UN MATRIMONIO
Il capofamiglia ha l’abitudine di alzarsi la mattina alle sei e far tutto senza accendere le luci.
Lei no.
Stava uscendo dal bagnetto, dove su un ripiano sono riposte le varie scatolette di alimentazione zoologica, con luce accesa e porta aperta.
Aveva le due mani occupate da tre scatolette ed una busta di jelly quando lui compare nel vano della porta con una smorfia degna di Nosferatu colto dalla luce del giorno in una piantagione di aglio, e le chiude la porta in faccia.
Lei si lamenta "Ma scusa!" appoggia le scatolette sull’asse da stiro, riapre la porta, spegne la luce del bagno, riprende le scatolette e si dirige in cucina, preceduta dai due mici, miagolanti sincroni ed appaiati.
Sono rimasta seduta su quegli scogli, con la bassa marea l’acqua non mi bagna più la punta dei piedi. Comincia a fare freddo.
Seduta sul treno non penso. Niente emozioni, niente aspettative. Niente fiori al binario. Niente, voglio trovarti da sola. Ti riconoscerei tra mille senza averti mai visto. Ciao. Camminiamo verso l’uscita. Ah,tieni,mi sono ricordata di portarlo, il regalo di Natale. Come, di già. Ma è quello dell’anno scorso, poi non ci siamo visti. Lo tenevo nel comodino.
Visto che oggi è domenica e c’è il sole e tra un po’ me ne vado a fare un giro in bicicletta, e che ogni tanto volevo postare (senza pensar troppo se mi vergogno o no) quei raccontini che avevo scritto come compito agli albori del corso di scrittura creativa, agli albori, perchè poi non ho scritto altro e mi sono impantanata in questo blog Tiptop , mi sembra il momento giusto. Questa che posto era una solenne cavolata, l’esercizio era cambiare il finale ad un racconto celebre. Cosa c’è di più celebre della favole?
TITOLO: LA BEL LA ADD ORMENTATA NEL BO SCO
(cambiare il finale ad un racconto celebre)
corso B – scritto il 5.3.05
I secoli passarono, come aveva predetto la fata, e la bella dormiente nel castello blindato dai rovi attendeva il suo principe, cullata dai sogni più rosei.
Il principe Carly si era spinto a cavallo sin nel più fitto bosco di Francia alla ricerca di un posto dove poter dare sfogo alla sua passione per la caccia alla volpe, quando vide svettare in mezzo ad una muraglia di rovi le torri di un castello antico. Interessato a quell’architettura sconosciuta si avvicinò: magicamente i rovi si schiusero su un sentiero che condusse Carly al castello, incontrando per ogni dove uomini e donne in costume che dormivano saporitamente. Sempre più incuriosito, salì la scalinata e, di salone in salone, giunse nella stanza più luminosa di tutte, al centro della quale dormiva in un letto col baldacchino una splendida e dolce creatura. Carly si chinò a guardarla, la boccuccia tagliente serrata in un accattivante sorriso, e una tenera folta frangetta bionda arrivava al nasetto prepotente. La trovò terribilmente attraente e la baciò appassionatamente. La fanciulla spalancò gli occhi e con un’espressione un poco smarrita, mormorò “Sei un cavallo?” Carly rispose dolcemente “No, sono un principe, il principe Carly “Anche se eri un cavallo non importava” cercò di essere gentile lei.
Intanto le figure intorno a loro riprendevano a muoversi nei loro vestiti fuori moda e, correndo, un’omino ed una donnina incoronati e petulanti si precipitarono a riabbracciare la loro figliola. Carly pensò che i francesi erano proprio strani, non era bastata la Maschera di Ferro, dovevano aver ancora nascosto dei nobili, e questa volta se li erano perfino dimenticati. Si rese conto che in quel castello il mondo si era fermato e furbescamente sorvolò sull’esistenza di Dolce e Gabbana, degli aerei e dei cellulari UMTS, mica che poi dovesse pensarci lui a soddisfare i capricci di tutti, col suo appannaggio. Innamoratissimo, chiese in sposa la fanciulla dai capelli d’oro, e se la portò via sul suo destriero: il viaggio sarebbe stato molto molto lungo, disse.
Accompagnò subito la ragazza a comprare abiti consoni alla sua nuova vita: questa disdegnò tailleur, cappellini ed anche jeans a vita bassa, scegliendo senza esitazione alcuna una giacca di tweed e dei pantaloni da cavallerizza,ed il principe Carly ne fu entusiasta.
Carly dovette tenere nascosta la ragazza fino alla presentazione alla madre, la Regina, che per l’occasione indossò il suo cappellino lilla preferito, a forma di ortensia. La regina impose a Carly di continuare la relazione in segreto finchè la promessa sposa non sarebbe stata adeguatamente istruita ed educata alla vita di corte, ne andava del prestigio della monarchia; il Principe Consorte invece allungò alla futura nuora una manata sul sedere.
Carly spiegò tutto alla fanciulla e l’accompagnò di nuovo in un castello, dove si dedicò a lei, assumendo alla bisogna i migliori insegnanti. Il principe Carly doveva però spesso assentarsi e la ragazza purtroppo non poteva neanche più godere della compagnia della sua fata, che era diventata una stella del rock ed era sempre un po’ fatta; così, quand’era sola, si abbandonava al ricordo dei sogni del suo lungo sonno, dove la svegliavano con un bacio principi giovani belli biondi con gli occhi azzurri, e volevano sposarla. Era un po’ perplessa… questo principe era un po’ vecchio, un po’ grigio…però l’aveva svegliata con un bacio e voleva sposarla. E se c’era stato qualche errore? Decise di indagare. Così chiese al suo scudiero, biondo e con gli occhi azzurri, se era un principe, questi sorrise, lei lo prese per un sì e gli chiese di andare la notte a svegliarla con un bacio: lui obbedì,e non si limitò a quello. Ma non le chiese di sposarlo, non doveva essere quello giusto. E il regno era piena di giovani biondi con gli occhi azzurri, ma non erano mai il principe giusto. E tutta presa dalle indagini, per altro assai piacevoli, trascurò di applicarsi all’apprendimento dei suoi doveri di futura regina. Così la regina non dava mai il consenso alle nozze, perchè la futura nuora le sembrava sempre ignorante uguale, Carlo invece impazziva d’amore perchè lei gli sembrava sempre diversa, come mai nessun’altra prima, profumava di fieno, o di mare, e di bosco e anche di whisky, una volta addirittura di benzina ed un’altra di patatine fritte. Stava però invecchiando a vista d’occhio, forse la pelle vecchia di secoli stava degenerando, temeva Carlo, eppure più lei raggrinziva più lui la trovava attraente. La promessa sposa dovette rinunciare alle indagini, nessun giovane principe voleva più venire a svegliarla. Così, passati gli anni, si riapplicò agli studi, non sapeva più tanto di whisky, e neanche tanto di birra, e la pelle non invecchiò più tanto velocemente. La vecchia regina non ostacolò più le nozze e Carlo, coi capelli bianchi e gli occhi scuri, tremolando un po’ continuava a trovarla terribilmente sexy.
E vissero tutti felici e contenti.
Ho pensato di postare il primo racconto che mi ero cimentata a scrivere, un "compito" all’inizio del corso di scrittura, febbraio 2005, prima di allora non avevo mai scritto nulla di "organizzato"…
alcuni amici con cui ho parlato dello scrivere lo hanno già letto.
DESERTO
Antonia era rientrata dal lavoro. Sempre tardi, tutte le sere; sempre la tavola era apparecchiata e sui fornelli non c’era nulla, il cane ed il gatto però avevano mangiato, anche se il cane cercava di bluffare. Il marito leggeva il giornale, i due figli chiusi nelle loro stanze. Antonia sbrigò in fretta qualcosa per la cena, e li chiamò. I figli uscirono dalle loro stanze e la salutarono, il marito non si mosse, si levò quando gli altri furono seduti a tavola.
Nessuno parlava, ad Antonia non veniva in mente niente che potesse interessare tutti. Poteva parlare con Lorenzo, poteva parlare con Francesca, qualcosa poteva cercare di dire al marito. Ma non con tutti insieme. Sapeva che se avesse raccontato qualcosa, il marito sarebbe intervenuto prontamente, per smentirla. Francesca non aveva torto, quando qualche sera prima le aveva vomitato addosso che in quella casa non c’era amore. Non era del tutto vero, lei amava i suoi figli, almeno quell’amore c’era. Ma anche Lorenzo, dopo le vacanze, aveva osservato che c’era aria di disarmo in casa… il papà passava tutto il tempo al computer, sempre con lo stesso solitario, e lei si dimenticava le cose da fare, le scadenze… Guardava suo marito mangiare, lento, metodico anche in quello, e le dava fastidio, di lui ormai tutto la infastidiva.
La cena finì con poche parole, ed ognuno tornò alle proprie postazioni. Antonia continuò con le faccende, quelle poche che la sera riusciva a sbrigare, dividendosi tra la cucina, la lavatrice e lo stendibiancheria. Accese la luce in camera da letto, sistemò la biancheria asciutta nell’armadio. Improvvisamente si trovò al buio. L’aveva fatto ancora!
– Accendi la luce! – gridò, con tutta la rabbia che aveva in corpo.
– No, quattro lampadine sono troppe, domani tolgo il lampadario così la smetterai di accenderlo per niente.
– Non è per niente, sono qui nella camera, sto mettendo via le cose! Guai a te se lo togli, è mio, è della mia camera di quand’ero ragazza, mi piace e lo voglio tenere !
– Fai scenate così, e poi i figli cosa capiscono, che ha ragione chi urla più forte!
Ma Antonia non c’era già più, stava piangendo a dirotto sul divano, come sempre più spesso succedeva, ed il gatto andava a vedere cosa c’era, e il cane si rannicchiava nell’incavo delle sue ginocchia.
Non poteva continuare così. Uno stillicidio di cazzate.Una dopo l’altra, senza scampo. Forse era questa la soglia della pazzia.
Sentiva il marito parlare dolcemente: stava portando fuori il cane, per la passeggiata notturna.
-Mamma, cosa c’è? – Lorenzo studiava fino a tardi,e anche con la porta chiusa la sentiva sempre quando piangeva e sempre veniva.
-C’è lo stesso delle altre volte, non cambia mai, non lo so risolvere. Mi sento sola, sola e sola. Non riesco a pensare che questa debba essere la mia vita, fino alla fine. Potrei morire nel silenzio, al buio, il giorno che voi sarete fuori casa. Senza sentire più braccia che mi abbraccino, senza un bacio.
– Mamma…
– Non guardo se il barattolino dello yogurt è riciclabile, e, se lasciamo perdere le luci, muovendomi in cucina prendo dentro il fico beniamino, e faccio cadere la polvere dalle foglie. Ma quello che è peggio, mi sono resa conto che non voglio che le cose si sistemino, che mi dia un bacio, che ritroviamo un dialogo. Mi fa pena… non voglio neanche fargli male, non è cattivo, è così e basta. Solo che … lo guardo, come si scuote quando ride, e mi chiedo come ho fatto a sposarlo.
– Cerca di reagire, di fare qualche cosa per te, così sei un mucchietto di infelicità.
– Voglio amici, voglio uscire…
– E tu fallo!
– Non è facile da sposate … e poi non sono una gnocca! Dai, torna a studiare.
Antonia si alzò dal divano, e bussò entrando nella stanza di Francesca… che non stava studiando ma chattando al computer, con una miriade di riquadri foto disegnini e ghirigori aperti sul monitor. Sempre socievole la bestiolina! Si sedette sul letto, un CD stava suonando, la mamma e la figlia canticchiarono insieme “…che ti fan veglia dall’ombra dei fossi ma sono mille papaveri rossi, lungo le sponde del mio torrente voglio che scendano i lucci argentati …”.
Era salito dalle scale della metrò di Corvetto. Era magro, secco, le guance scavate, traballava appoggiato al suo bastone, la bocca mi è parsa come una O, senza denti. In mano aveva un sacchetto nuovo della Libreria Feltrinelli, dentro, la sagoma di un libro. Forse veniva da Piazza del Duomo.
La sua mano sfiorava veloce la tastiera accarezzandola, un sorriso leggeva le parole che chiedevano il suo cuore.
Fece un bel pacchettino e glielo mandò. Ma venne appoggiato lì, vicino al pc, non gli fu tolta neanche la carta.
Coincidenze.
Lampeggiava una bustina della chat.
Una ragazza, voleva solo dirmi che era bella la presentazione nel profilo.
Si chiama Cristina, come me.
Vive a Berlino, come il mio bambino grande.
Fretta.
"E’ tardi, dai tu la pappa ai mici e al cane
"ok
"Il cane è nel frigo
"…….
"Si va bene uff la scatoletta incominciata…
Fretta.
"Guarda che diluvia"
" Davvero?"
"Sotto la doccia diluviava"
…….
"No, mentre ero sotto la doccia… no, si, fuori, volevo dire. Adesso no, è diminuita"