Archivi tag: happy days

A otto anni avevo una tartaruga che si chiamava Patrizia, e me l'hanno buttata via perchè era morta. Non ero convinta, ma io ero piccola e gli altri grandi. Non lo saprò mai, se era solo in letargo.

aperitivo

Una cosa che mi piace fare, a Pallanza, nel tardo pomeriggio, è andare a prendere un aperitivo al bar dell'imbarcadero. Non che non ci siano altri bar, o gelaterie, sul lungolago, ma sono più interni., e meno variegati. 
Dal mio tavolino con la tavoletta arancione, ho tutto sotto controllo.
I battelli in arrivo, che attraccano e ripartono per l'Isola Madre, e poi Baveno, e, a quell'ora, anche il ferry boat, che ricorda, alla lontana,  quello del Mississippi, o di Assassinio sul Nilo.  
Il lago che sberluccica, ed il sole che tramonta, alle spalle di Stresa, Gignese, Vezzo, Levo, Campino, Baveno e del Mottarone, i "miei" posti del tempo che fu, e che difficilmente potrà tornare.
Il gioco delle nuvole, qualcuna piccina ieri sembrava fare capolino, nella prospettiva delle montagne. 
Ogni tanto qualche barca, qualche motoscafo, raramente una canoa, e le vele, di ritorno dall'alto lago, più esposto al vento.
Passano le anatre, e gli svassi, con il loro scomparire e riaffiorare, non riesci mai ad indovinare dove: mancava all'appello la coppia di cigni, forse occupata con la prole, è il periodo; gli anatroccoli sono invece già grandini, sette, ne ho individuati.
Un uccellino stava sulla ringhiera, ieri, ed un altro arrivava ad imbeccarlo, e questo sbatteva veloce le alucce, come fosse contento, o emozionato, mentre inghiottiva il bocconcino. 
Sorseggio di solito un'aperol col seltz, un aperitivo forse non tanto di moda, che servono con  le patatine, le olive, le arachidi ed i salatini snack a forma di orsetto, o di stellina.
Al Gigi Bar sul lungolago di Stresa, mia madre prendeva sempre l'aperol, nel bicchiere alto col bordo zuccherato e la fetta d'arancio, ed io, bambina,  il bitter analcolico, ma non  ricordo che allora ci fossero le papere, gli svassi e le nuvole che passavano.

Fonti, a Milano, non è che ce ne siano granchè (che io sappia)

Oltrepasso pedalando piano la cancellata del Parco Sempione su viale Moliere, la meta di oggi è ritrovare la mia "vedovella", da tanto tempo non passo di lì.
Gli alberi affondano le radici anche nel tempo, e lì restano in attesa ,  in fila, alternati alle panchine, dei parallelepipedi di pietra polverosa:  un tempo qui non c'era recinzione, ricordo che a volte passava al galoppo un tipo a cavallo, altre  volte  due carabinieri, al passo, con la mantella ed il cappello napoleonico, chissà, forse passano anche adesso.
Proseguo sui viali, tra i prati che curiosamente, in un mondo dove tutto peggiora,  mi sembrano più erbosi, e imbiancati da pratoline, di quanto mi ricordassi dalla mia infanzia, che fossimo dunque  noi frotte di  bambine romantiche a raccogliere tutti i fiorellini spogliando e calpestando? Sull'erba, ora, alcuni suonatori di bongo, e dei milanesi ancora pallidi, appena fuorusciti dalle tane, che si godono il sole, alcuni  sdraiati semplici, alcuni sdraiati (s)composti, in coppia.
Non è facile muoversi per il parco in bici nel lunedì di Pasquetta, le famiglie "lui, lei, il passeggino e i nonni" avanzano sorridenti per i viali in formazione a rastrello, mentre le non famiglie si sparpagliano, seguendo una bussola incerta, di qui, di là, con movimenti repentini, sembrano  attratti dalla mia ruota.
Una volta conoscevo  i viali del Parco persino per gli asfalti,  i viali  lisci per correre con i pattini a rotelle, e quelli granulosi comodi solo per la bicicletta, e gli sterrati, con la ghiaia traditrice dove la ruota slittava; ora sono tutti senz'asfalto, la ghiaia è polverosa e  scarsa, e tanta la gente che ci cammina, sembra polverosa anche l'aria. Con l’asfalto sembra sparita anche la "mia" fontana e la sua grata, quella dove ci si fermava a bere, dallo zampillo,  si lavavano le ginocchia sbucciate  su cui poi si legava il fazzoletto a mo' di benda, a fermare il sangue.  Non c’è più l’asfalto, ma non ci sono più neanche le macchinine a pedali, rosso Ferrari, quelle che affittavi per un quarto d'ora e pedalavi su e giù sempre per lo stesso viale, ma non importava, quando sei bambino, non ci fai molto caso, l'avventura è sempre l'avventura.  “Aspetta – penso-  di fontana ce ne era un’altra, là, dove giocavo con Marina e ogni tanto c’era il tizio con l’impermeabile, Marina sapeva che bisognava stare lontane e non guardarlo neanche se ci salutava… però, mica che mi parlassero mai di niente i miei!”  Per raggiungerla bisognava passare da un’altra cancellata che adesso non c'è più,  vicino alle rocce, sotto la Biblioteca, non c’è più lì neanche il trenino , ci sono ora persone, cani, gelati… pedalo, era sulla destra, ci sembrava così lontano da dove stavamo a giocare.  L'odore… eccola, la fontana dell’Acqua Marcia, dove tante persone, soprattutto anziani,  riempivano bottiglie. La fonte della giovinezza, dicevano. Ma quell’odore lì, così… pensavo allora, lo penso anche adesso, guardando gli zampilli e cercando di decifrare le scritte di un cartello, che hanno sovrascritto con un più esplicito pennarellone "acqua non potabile” .
Un giovane si lava, uno shrilankese si ferma a rianimare con l’acqua fresca le sue rose da vendere.  Chissà se l’acqua sulfurea fa bene, alle rose, sapevo dell’aspirina, invece.
A casa, poi, ho curiosato sul web, per sapere qualcosa di più di questa fontana, ed ho scoperto che c’è una galleria sotterranea che porta la sua acqua sino al laghetto del Parco, quello  dove i pesci rossi liberati dai milanesi diventano carpe giganti.


m'ama non m'ama

Passo davanti ad una cancellata, nella pausa pranzo, al di là c'è un prato, ed un ritrovo per gli anziani del quartiere.
D'estate, al martedì pomeriggio, attraverso le finestre aperte mi  arrivano le loro musiche da ballo.
Il prato non è ancora stato tagliato, e vicino alle sbarre ho visto delle pratoline corpulente… m'ama non m'ama, ma no, mi son detta, tanto stavolta so come va a finire, non c'è più la suspence.
Quanti ne ho spiumati, di quei poveri fiorellini.
Bambina, con la Gloria e la sua mamma al Parco Sempione  ne raccoglievo mazzolini da portare a casa alla mia, di mamma, che, non lo sapevo allora, era fuori, con ogni probabilità seduta a  qualche tavolo di ramino.
Le pratoline diventavano anche il riso con lo zafferano, quando si cucinava per le bambole.
Crescendo, il gioco con le pratoline si era fatto più complicato… m'ama non m'ama… non m'ama, per forza, ho preso due petali insieme, 'spetta che rifaccio.

incipit

Nella grande casa davanti alle Isole Borromee nel pomeriggio restavamo qualcuno dei "grandi", ed io. I miei fratelli ed i  cugini erano sempre con gli amici, si conoscevano tutti tra loro, i ragazzi delle ville, andavano al Verbano, un circolo privato esclusivo, a prendere il sole e a fare il bagno, organizzavano giri in barca, giocavano a tennis. A quei tempi, circa cinquant'anni fa, essere belli giovani ricchi e spensierati poteva essere ancora una cosa sana: facevi sport e ti abbronzavi.
Adesso meno, credo, anche se non faccio  parte della categoria nè ho, come un tempo,  l'occasione di fare da spettatrice.
Nelle vacanze al lago passavo gran tempo da sola, ma non mi spiaceva più di tanto, o con gli adulti.
Nei ricordi di quel periodo della mia  vita,  i "grandi" sono come delle comparse, in fondo non seguivo granchè delle loro vicende, e di poche venivo messa al corrente, mentre della casa e del giardino mi sembra di ricordare ogni angolo.
Non mi pare di aver mai pensato o desiderato che le cose fossero diverse, mi sembrava fosse  normale così, come normale era per me muovermi in una villa enorme, con tre fontane, prati, terreni, statue in bronzo.
Non  mi sentivo sola, non sapevo di far parte di una famiglia benestante. Semmai  volevo un cane o un gatto mio.
Quando la zia Bruna, sorella maggiore di mia mamma, veniva a passare qualche giorno nella villa di Baveno, sicuramente sarebbero venute a trovarla " le Borioli", che io ostinatamente continuavo a chiamare le Jucker:  che potessero esser magari imparentate, non mi ricordo.
Arrivavano a piedi dalla "strada alta", in parte sterrata, la si chiamava alta perchè parallela alla "bassa" che scorreva in riva al lago, e portava sino a Baveno: era sterrata sino a Roncaro, dove c'era la cappella per la messa domenicale.
Insomma, mentre le mie sorelle sbuffavano a sentire il nome delle Borioli, due donnine magre spesso con vestiti a pois, ed i capelli raccolti,  io ero contenta perchè elogiavano per i miei lavori all'uncinetto, che a sette anni avevo appena imparato a fare con la mamma. Patine rettangolari che avevano il bordo come la lama di una sega, patine rotonde che facevo e disfacevo, finchè non riuscivo a farle restare piatte.

porte

Qualche notte fa, nel sogno ero nella villa di Baveno, il cuore della mia infanzia. Stava scendendo la notte, ero con la mia famiglia, e fuori dalle finestre si vedevano dei volti, ed avevo paura. Una donna dalla pelle scurita si era messa a dormire seduta appena fuori della porta principale, la vedevo attraverso il vetro Poi era stata la notte, ed era passata tranquilla. Un mio sogno ricorrente è stato a lungo un branco di lupi in giardino, proprio in quella casa. In questo sogno invece si aggiravano nel giardino sconosciuti, che non forzavano per entrare.
A pensarci ora, quante porte in quella casa, e quante vetrate… tutto il pian terreno era a finestre. C'erano due porte che davano sulla terrazza prospiciente il lago, quella sul davant era doppia, la porta a vetri e quella di legno con la sbarra. L'altra laterale, verso il prato con la fontana dei gemelli, me la ricordo solo  col vetro, ma ora che sono grande, non penso che potesse essere solo così. Però, la sera si chiudeva a chiave anche la porta di quel salone, erano quattro saloni in fila, quindi forse sì, c'era solo il vetro. 45 anni fa non si aveva tanta paura, forse la si aveva ma le cose non succedevano, non mi ricordo di furti in quella casa, ma ero piccola, forse a me non lo raccontavano. C'era la porta, quella dove ho sognato la donna, che era doppia, era l'ingresso con la scala che saliva ai piani con le stanze. Poi c'era ancora una porta, considerata più  di servizio, vicino alla scala che scendeva in cucina. Già, per la cucina, si scendeva, una scala di pietra, anche un po' ripida, ti portava in uno stanzone piuttosto buio, con un tavolo in mezzo, ai lati si aprivano le porte di due cantine. Un posto che intimoriva una bambina… ma avanzando verso la luce, si arrivava alla cucina vera e propria, quella con la dispensa, e la cucina  e la legna, e il tavolo dove mangiavano la Piera e la Francesca. La Francesca era la moglie del giardiniere, e faceva la cuoca, e oggi ripensandola mi accorgo che doveva essere timidissima. La Piera invece era di Roncaro, il paesino vicino, e serviva a tavola, e mi ricordo che stirava, sotto un portico appena fuori dalla cucina, che proseguiva nella stanza dei giochi.
Quando c'ero io, la stanza dei giochi era ormai una stanza di rottami, i giochi non erano stati i miei, ma quelli dei cugini più grandi di me. C'era dentro un po' di tutto, anche riviste, leggevo Gente, in bianco e nero, e Stop. Ho assistito all'agonia del grande plastico del trenino, con la galleria, i paesini…un giorno non c'è più stato, al suo posto c'era un ping pong.  Lì non credo che pulisse mai nessuno, tranne forse la sottoscritta con una scopa più grande di lei,  già da piccola davo  segno di voler trasformare nella mia casa qualunque posto dove mi fosse trovata ad essere. Anche lì c'erano porte da chiudere bene per la notte, ma non so come dovessero essere, facevano Piera e Francesca,  prima di tornare alle loro case. Nessuno credo andasse in cucina di notte.  Un piccolo frigorifero e un lavello c'erano anche di sopra, prima della sala da pranzo.
Stavo spesso da sola, e spesso avevo pensieri paurosi, mi avventuravo per le stradine inselvatichite del giardino, ma poi scappavo indietro, altre volte arrivavo, con tanto di bastone di  castagno, fino ai terreni incolti sopra la villa, sopra l'orto, dove c'era un fico e dei castagni… e non avevo neanche dieci anni, e avrei potuto incontrare chiunque.
Forse mia madre stava giocando a carte, forse i miei fratelli erano via con gli amici nelle altre ville. Non mi ricordo che mi cercassero, forse non si accorgevano neanche quando mi allontanavo, o forse lo dicevo, ma mia madre non credo capisse dove andavo, lei non si muoveva mai. Di solito stavo nell'ultimo salone, quello con la porta solo di vetro, stavo sempre lì a leggere, a disegnare, a  schierare  eserciti  delle fiches colorate dei grandi per giocare a pulce sul tappeto. Sono riuscita ad avere in casa mia il cane di bronzo che stava in quella stanza contro la vetrata, ed il quadro con i monelli sotto l'albero di ciliegio. Per me erano Tom Sawyer ed i suoi amici. E ho anche un po' di quelle fiches.

Parco Serengeti

Ogni tanto quando sono nel mio angolo al pc arriva il piccolo Tsunami, si arrampica sulla libreria tenendosi allo schienale di una seggiola e così pericolante mi sorride, e lo prendo con me sulle ginocchia.
Guarda lo schermo e col ditino cicciotto, che ingolosirebbe la strega di Hansel e Gretel,  indica delle figure e dice "io voglio questo".
Allora gli dico "guardiamo questo" e vado a cercare qualche filmato su You Tube… ora invece dei cartoni animati scelgo per lui documentari sugli animali, risparmiandogli per ora quelli cruenti, la lotta per la sopravvivenza per ora la limito ad un inseguimento.
"Gatti pazzi" lo fa morire dal ridere.
Oggi gli ho fatto vedere un filmato sui lupi, il lupo per i bambini è sempre quello cattivo delle fiabe, mentre questi erano bei cagnoloni che correvano sulla neve.
Trovo particolarmente bello quello che ho riportato qui, della serie  del parco Serengeti, anche se la voce che accompagna le immagini  è piuttosto antipatica.
Mentre Tsunami mi indica gli animali che riconosce, gli dico il nome di quelli che non sa, e  mi rendo conto di quanto questa visione rilassi me, forse ci dimentichiamo troppo spesso della natura, che pure fa parte di noi, del nostro far parte del regno animale. 
La danza dei fenicotteri, la luna nella foresta, gli animali al bagno, i leoni addormentati a pancia in su come i gattoni.
Penso al titolo del filmato: Parco Serengeti. Una volta questo era il  loro mondo, non era un parco. Mi sembra una cosa così orribile.

Fili, spilli, e nastri, soprappensiero.

I bottoni a forma di corno, e  color corno, erano del montgomery, e quelli rossi dovevano essere della giacca di una mia sorella, e quelli piccoli rosa carnicino di un golf aperto davanti che mi ha fatto la mamma e non mi è mai piaciuto, tutto smollaccione, forse lo apprezzerei adesso, che mi piace annidarmi nei golfoni.  Nel sacchettino col bordo di pizzo Sangallo c'è ancora il bigliettino, Camilla e Maurizio, 14 giugno 2003, oggi hanno un bel bambino. Nella scatola della stilografica avevo messo gli uncinetti, grossi da lana, medi da cotone perlè, e sottilissimi. Ci metto anche gli spilloni della maglia, quelli che si usano per tenere i punti dello scollo. Con la lana, ad uncinetto, ho fatto una coperta di lana, seguendo le istruzioni di un giornale femminile, che riproduce il paviemento della Certosa di Pavia, ed altri plaid con gli avanzi, a quadratini, patchwork. Con gli uncinetti medi confezionavo patine colorate, con quelli sottili pizzi rotondi, o quadrati. La zia Liliana mi aveva commissionato una tovaglietta per coprire la lavatrice. Non sono mai stata abile nel fare i golf, a meno che non fossero per bambini, però anche con i ferri e avanzi delle lane che usava la mamma ho fatto un paio di coperte.
Il puntaspilli è pieno di aghi con fili ancora infilati: la signora Margherita, dell'oratorio, insegnava alle bambine il ricamo, e mi ci son messa anch'io,  mamma, a ricamare, a rifinire gli occhielli, e poi il punto croce. Era molto attenta, Margherita, a non sprecare il filo, e l'adoravo, era la nonna come non l'avevo avuta, era una donna forte che aveva perso una figlia e ne stava allevando i figli.
Non so più niente di lei, forse c'è ancora, vecchissima, le donne come lei non muoiono. Mia nonna, la mamma di mio padre, era invece una donna malmustosa che seduta sempre al tavolino rotondo del salotto, impartiva ordini a tutti, e faceva capricci perchè era vecchia, però aveva sempre le caramelle di menta fondenti Perugina, che mi piacevano tantissimo, e mi dava i cioccolatini Caffarel a forma di ghianda, e di fiore.
Riordinare il cassetto delle cose del cucito non è impresa da poco.

bolle di sapone

Ho visto in cucina  lo sparabolle dei Gormiti,  di plastica gialla, con una boccetta caricatore… fare le bolle di sapone impugnando un’arma.
Ma  perchè perdere la delicatezza del gesto? Le labbra che si avvicinano ai  cerchietti di plastica che trattengono un tessuto di accqua un po’ lucida, e soffiano piano, nel  il timore di infrangerlo. La bolla che vola, altre la seguono,c’è un senso di gioia, forse sarà la leggerezza di quel volo, o questa nascita un po’ magica.
Da bambina giocavo con le bolle sul balcone della cucina, abitavamo al settimo piano, e non mi ponevo ancora il problema delle vertigini.
Non esistevano ancora le boccettine di plastica con i cerchietti ed il liquido che quando finisce è da buttar via. Che quando poi ti ritrovi  madre, scafata dalle esperienze della vita, ti chiedi che mai ci sarà dentro se non sapone – son bolle di sapone, eh! -, ed allora ci rimetti un po’ di detersivo per i piatti, un po’ d’acqua, e via andare.
Quelle non esistevano ancora, e non avevo neanche le cannucce. Le cannucce pensavo si trovassero solo nei bar, e potessi averle solo portandone di nascosto qualcuna a casa. Un’ambizione di possesso forse tipica della mia generazione, che avrebbe alimentato  i furti di posaceneri dai bar, prima che arrivasse la pubblicità e il marketing ed il merchandising, ed i portaceneri te li mettessero lì, nei bar, per essere rubati, alla faccia del libero arbitrio. Come le  saponettine e i bagni schiuma degli hotels, insomma.
La mamma mi faceva le cannucce, con la carta degli alimentari, quella un po’ gialla, robusta, ruvida  che il macellaio usava per la carne.
La arrotolava e la legava con un pezzettino di spago. Penso che fosse la mamma, ma forse era la bambinaia Maria, o sua sorella, la cameriera Laura, che era in cucina. Era normale che la Maria fosse con me, e anche Laura, visto che era il balcone della cucina. Penso che fosse la mamma, ma mi sembra strano che ci  fosse lei a fare queste cose, nel mio ricordo si confonde.  Però era stata la mamma a urlare in cucina quando mi sono tirata un armadio addosso, rimanendo nell’incavo. Quello me lo ricordo, il suo spavento, il mio non lo ricordo tanto visto che non mi ero fatta niente. Ma sentire un rumore,  entrare in una stanza e trovare un armadio a terra dove ci doveva essere la tua bambina, non deve essere un bel vedere per una madre.
Mi affidavano un pentolino, con l’acqua e del sapone da bucato, quello in polvere, che aveva  sempre dei grumini non sciolti. E le bolle riuscivano lo stesso,  con la cannuccia della carta del macellaio, e volavano dal settimo piano, sopra il cortile.

Io e la poesia

Da bambina leggevo tantissimo.
Ricordo che dopo i grandi pianti, e più avanti negli anni, dopo più o meno grandi delusioni, mi accoccolavo sulla poltrona con un libro tra le mani, leggevo le prime parole attraverso il velo delle lacrime, e poi via,  lontana da tutte quelle tristezze. Capitava magari di piangere di nuovo, leggendo le storie, di sicuro  lacrime più belle, di quelle che che lasciano  veloci il posto ad un sorriso complice. Mi capitava di innamorarmi di alcune illustrazioni, prediligevo quelle dai colori tenui e delicati, come acquarelli, le carezzavo, carezzavo la carta liscia e robusta.
Da bambina pensavo che avrei scritto, che sarei diventata una poetessa.
Un giorno la scrissi, una poesia, con l’immagine che mi veniva in mente sempre quando pensavo a cosa scrivere in una poesia “La montagna si staglia alta nel cielo”.
Non ricordo come fossi andata avanti, forse scrivevo di un ruscello azzurro e di abeti verdi.
L’immagine mi sembra di vederla ancora… però non trovo più la poesia, avevo fatto anche il disegno.
La montagna – le montagne hanno il compito di stagliarsi – il cielo  azzurro, il sole con i raggi gialli.  E un prato, perchè da bambini si disegna quasi sempre un prato ai piedi di una montagna solitaria.
Ma anche un grande, se gli si dicesse di disegnare una montagna, non farebbe qualcosa di molto diverso.

Chapel

Mentre usciva dalla banca, il semaforo era diventato rosso; l’aria era umida, indecisa se essere pioggia oppure no.
Una figura dall’altra parte della strada, seduta su un gradino davanti ad una vetrina, attirò la sua attenzione: un uomo giovane, minuto, riparava sedie impagliate, ad uno degli angoli dove anche suo padre riparava sedie impagliate.
Se lo ricordava bene, un omone con grandi occhi celesti, i capelli ed il viso rossicci, lo vedeva sempre da bambina quando accompagnava la mamma in corso Vercelli, contornato da sedie, e anche da ombrelli.
Chissà se esiste ancora qualcuno che porta a riparare l’ombrello, lei per esempio non lo faceva, li comprava da poco prezzo, si  autodistruggevano o li perdeva prima.
Poi quando aveva cambiato casa, lo aveva chiamato per rifare l’impagliatura di tre sedie: ora, le sedie impagliate per quanto belle non le comprerebbe più.
Era rimasta stupita, ed anche un po’ delusa, che fosse venuto a ritirare le sedie a casa, e disponesse di un furgoncino e di un laboratorio, aveva sempre pensato che tutto si svolgesse agli angoli delle vie.
Le sedie gliele aveva anche riportate, a casa, accompagnato da un ragazzino. Il padre si chiamava Bernardo, o Giovanni, non si ricordava bene, il figlio Marco, forse, come il suo.
Non ci si fa caso di solito a queste cose, ma pensandoci, questo sconosciuto l’aveva vista crescere.
Camminare bambina per mano alla mamma, e da madre, spingere il passeggino.
Pensieri veloci, uno dentro l’altro, il tempo di un semaforo.
Passandogli vicino lo guardò mentre martellava il telaio di una sedia. L’uomo giovane alzò la testa,  due occhi azzurrissimi la scrutarono e le sorrisero,  per  riabbassarsi subito sul  lavoro.
Fisionomie.


sabato grasso, con Vertoiba 5

Sarà che non sono passata dal Centro, ma il Carnevale  – oggi sabato grasso qui a  Milano – quest’anno l’ho visto poco, giusto perchè all’Upim vendevano i costumi e nei  supermercati i sacchetti di coriandoli,  nel declino delle stelle filanti.
Dei coriandoli mi piace giusto il nome, che trovo dolcissimo, svolazzante e colorato. Magari  è un dejavù, ma trovo una certa sensualità nel lancio dei coriandoli…non però nei modi di  una donna che ne seppelliva un bambinetto, dicendo Auguri,auguri, al fianco di una mamma con testa di drago.
Al Brico Center l’unica cassa aperta, forse per sua punizione, o per nostra costringendoci a guardarla, con una cassiera con una grossa parrucca di riccioli candidi.
Passavo pomeriggi, quei miei pomeriggi di bambina solitaria, a giocare con le stelle filanti, facendone intrecci a fisarmonica, e catene, all’epoca odiavo il colore  arancione.
Al pomeriggio la presentazione del libro – che non si può definire romanzo e neanche antologia, sistema di voci penso sia stata la definizione giusta data dalla relatrice Annamaria Palladino – di
Ale D’Agostino, cui la terribile Tiptop voleva donare una margherita, uno di quei bei rami lunghi…
Terribile Tiptop perchè dopo la prima presentazione avvenuta a settembre e recensita sul blog
Sanremout, avevo commentato l’opera un po’ fuori dal coro, con un giudizio non negativo ma perplesso su alcune cose, apprezzandone altre.
Arrivata in bicicletta ed in anticipo, mi sono fiondata da un fiorista, che però mi ha proposto di tutto, anche una composizione di giacinti, uno rosa, uno bianco e uno azzurro, stile maternità che non mi sembrava il caso, e insomma ho ripiegato su tre tulipani, due gialli e uno bianco, colori della margherita tipo. Solo che ne hanno falcidiato il gambo, e sono spariti avvolti in una garza verde, insomma non era più il gesto che volevo fare io. 
La nemesi esiste, cosicchè l’autrice mi ha chiamato a parlare (io muoio in pubblico così, ma ho retto, sto imparando,ma non mi sono alzata in piedi) come interessante caso di persona che aveva già letto il libro, e non le era piaciuto.
Intanto nella libreria  c’erano dei saldi, mica tanto convenienti a dire il vero, perchè 5 euri per un Piccolo Mondo Antico in edizione Oscar Mondadori di quando ero ragazza io mi sembra troppo, tenuto conto che se apri adesso quelle edizioni lì con la colla secca altro che coriandoli.
Ho scovato però un libro solidamente rilegato  di Brunella Gasperini, ed ho pensato ora o mai più credo. Ne ricordo la piacevolezza nelle sue rubriche sui giornali, secoli fa.
Me ne sono tornata a casa in bicicletta, pensando che il tempo stava cambiando dal tiepido primo pomeriggio in cui avevo visto, pedalando, un sacco di vecchiettini accompagnati fuori, che attraversavano passin passetto sulle strisce.

Normal
0
14

false
false
false

MicrosoftInternetExplorer4

/* Style Definitions */
table.MsoNormalTable
{mso-style-name:”Tabella normale”;
mso-tstyle-rowband-size:0;
mso-tstyle-colband-size:0;
mso-style-noshow:yes;
mso-style-parent:””;
mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt;
mso-para-margin:0cm;
mso-para-margin-bottom:.0001pt;
mso-pagination:widow-orphan;
font-size:10.0pt;
font-family:”Times New Roman”;
mso-ansi-language:#0400;
mso-fareast-language:#0400;
mso-bidi-language:#0400;}

Ci siamo seduti al tavolo, mia madre,mio nipote, e al nostro fianco il cassetto contenente le fotografie che teneva mia sorella  O.

L. voleva cercare quelle belle di sua madre,  mia madre voleva sostituire – ovviamente, deve aver sempre da ridire – quella che aveva messo in cornice per lei mio fratello.  Ed anche a me era stato offerto di prendere quelle che mi piacevano.

Frugare  tra le vecchie foto, se può essere per certi versi malinconico, visto anche il motivo per cui ci trovavamo lì insieme, riesce a diventare esilarante con la presenza di mia madre – solitamente irritante.

Una foto scolastica, 3 file di bambinetti ingialliti, la mamma ce la passa indicandoci quale era mia sorella ed L dice  che quella era la classe di suo fratello, e che M. era quel bambino lì. Allora io per prendere in giro mia mamma, dico ” Allora O deve essere quella lì…"  E mia mamma: “ Che sciocca che sei, lei era più grande, non potevano essere in classe insieme!” In effetti… madre e figlio,  alle elementari insieme, è alquanto  improbabile.

Mia sorella, divorziata, aveva avuto due storie importanti… insomma, in famiglia facevamo tutti il tifo per An, At, venuto dopo, era un po’ troppo damerino per i nostri gusti. Intanto, io An lo avevo rivisto al mare gli anni scorsi, e l’ho avvisato, non mi vedevo reincontrarlo e lui mi chiedeva di lei e io gli dicevo non c’è più. E quanto spesso mi ha chiamato, chiedendomi notizie, e sentivo il pianto trattenuto nella sua voce. E l’ho avvisato tra i primi, quando non c’ è stata più, e lui dopo un attimo mi ha richiamato, "Giurami che non ha sofferto".

Insomma la mamma, guardando le foto, ha trovato un nuovo tormentone,  “Però aveva l’aria più felice con At.” E lo ripeteva ad ogni momento. Di foto con An invece non ce ne erano, ce ne erano invece tante di lei in quel periodo ed era bellissima. C’erano anche del cane Yorkshire di At, e ho detto “Ma guarda questo cane come è felice di stare con At” e la mamma “Vero che si vede?”

Di foto per me ne ho prese due, che non sono con  mia sorella, perché belle belle non erano molte, e mi sembrava giusto che restassero a suo figlio.

Ho preso questa foto di mio padre, scattata dalla cucina della villa di Baveno, un padre che io non ho conosciuto così e ricordo più vecchio, né ricordo la villa così ben tenuta, ci doveva essere ancora il nonno, perché la “mia “villa di Baveno era assai più selvaggia.

Che poi la mamma mi ha fatto leggere le lettere che mia sorella scriveva al papà, ha detto” Parlava sempre di te, la famiglia per lei eravate tu e il papà”… ho avuto solo il tempo di scorrerle…e scorrere in mezzo a quotidianità sconosciute o non ricordate… leggere, e scoprire cose.

Che non ne volevo sapere di entrare nell’acqua del mare, a due anni a forte dei marmi.

Che ero la causa della macchia d’inchiostro sul retro della lettera, dove avevo firmato con uno sgorbio.

Che ero  l’aiutante del giardiniere,  ero sempre a rastrellare e a dare da mangiare ai conigli.

Ma di questo ricordo qualcosa, aveva un cane setter, e lo facevo giocare con fogli di giornale appallottolato e lui li strappava e ridevo dicendo che leggeva.

Oggi domenicale guidavo per le vie di Milano, e pensavo che  con le ultime migliorie sembrano sempre di più piste per automobiline… rotonde ovunque, e rotondine, perfino cerchietti pur di farcene stare una.  Hanno ristretto alcune vie in modo che passi una sola macchina, che mi sono chiesta come fanno in caso di emergenza se devono deviare il traffico.  E queste vie sono tutte belle sinuose, seguono i contorni delle aiuole.Che già la parola aiuola, tutta di vocali tranne una consonante, ha l’aria di contorcersi, rammenta un’ameba col moto ameboide. E ci sono certe sporgenze che uno ubriaco evita, invece uno sobrio che avanza in linea retta, come parrebbe essere la strada,  ci topicca.
E non so come, sono finita a ripensare alla villa della mia infanzia sul lago Maggiore, proprio davanti alle Isole Borromee. Villa venduta quando avevo dodici anni. Sotto la terrazza del piano terreno ci stavano sulla sinistra la cucina, e sulla destra la stanza dei giochi. Pavimento di legno grezzo, seggiole traballanti, giornalini vecchi, abbandonati aperti, leggermente umidi, si sa come è il lago. Prima che ci restasse in pianta stabile il ping pong, era occupata da un vecchio plastico dei trenini. Ormai era in dismissione, i cugini erano cresciuti e con altri interessi, ero l’ultima piccola… il trenino non l’ho mai visto in funzione, erano rimasti dei vagoni che componevo e facevo andare a mano. La galleria, che si poteva spostare, ospitava sempre ragnetti coscienziosi. Credo fosse di cartapesta. Le rotaie c’erano più o meno tutte, e c’erano anche le casettine e la stazione.
Quella stanza era un po’ il mio regno, nella mia infanzia piuttosto solitaria.
Quando le domestiche mi  lasciavano prendere la scopa ed uno straccio, mi ingegnavo a pulire. Progettavo di farci un rifugio per gatti e cani randagi, il fatto che andassero d’accordo era il grosso problema da risolvere.