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Il ragazzo con la bicicletta

Innanzitutto, il cinema Eliseo si presenta tristissimo. In fondo a una galleria  -galleria di quelle cittadine, ovviamente – c'è il botteghino, dove ti chiedono " Va bene centrale in mezzo?" tu ti fidi e dici sì, difficile rispondere "No sotto lo schermo"oppure "No, l'ultima fila in fondo, tanto ho altro da fare". Anche "Centrale di lato" sarebbe una bella risposta,  un signor Veneranda si soffermerebbe sul fatto che se è centrale non può essere di lato, e così via. Due porticine di vetro ai  lati, e si entra nel cinema, un cinema in grigio, che d'estate senza paletot non ti aspetti, e ti stupisci di non trovarci anche la nebbia.  Però, nella sala, le poltrone grige, attrezzate con portabottiglioni,  ti accolgono e ti avviluppano, stai veramente comoda, e poi, quando guardi un film, ti dimentichi dell'incolore che ti circonda.  Nonostante il sadismo della tipa del botteghino, che ti piazza le persone nella poltrona di fianco, in un cinema semivuoto,  così devi anche spostare la borsa e fare attenzione al gomito.

Di questo film, che pure è stato premiato a Cannes, mi sembra si sia parlato poco, erano tutti preoccupati a dare interpretazioni più o meno roboanti del film vincitore, e come succede di solito, le piccole cose quotidiane  non polarizzano l'attenzione, appunto perchè quotidiane, aggettivo per molti sinonimo di "scontate": eppure il quotidiano non è poco complesso, da affrontare, e da capire.
Qui c'è un ragazzino biondo, magrino e incassato nelle spalle,  che cerca il padre, che lo ha lasciato in un istituto e non lo rivuole, deve rifarsi una vita e lo vede come un impedimento.
Stranamente, nessun cenno a una madre. Non sai nulla del passato. Si comincia con questo stato di fatto, il bambino rivuole suo padre, ma della sua vita precedente recupera solo la bicicletta, che suo padre aveva venduto. E questa è la prima grossa delusione nel film, scoprire che la bici non era stata rubata, era invece  certo,  Cyril, che suo padre non avrebbe mai  potuto venderla.  Cyril di corsa, a piedi, in bicicletta, arrampicato, sempre in fuga,  sempre in cerca, mai in pace. La parrucchiera Samantha, incontrata per caso, o meglio, scontrata per caso, gli riporta la bicicletta e lo accoglie nei week end, sacrifica il rapporto con il suo compagno, innervosito dalle stranezze di Cyril, pone riparo al guaio che il ragazzo ha combinato rubando, sotto l'influenza di un  capetto di una banda di bulletti  del quartiere, a Cyril che le chiede scusa per averle ferito un braccio, e se può vivere con lei, risponde tranquillamente sì.
E Cyril alla fine del film  sorride, lo sguardo è meno torvo, le spalle sono più distese, non è più in credito, anzi può permettersi di dare; soprattutto si  avverte che c'è un domani.  La forza della donna è  dire sì, quando la vita sembra sempre dire no, a Cyril, e l'amore e il coraggio riescono meglio di mille psicoterapie. Che poi Cyril chiede a Samantha " Ma perchè mi hai detto di sì, quando ti ho chiesto se potevo venire nei week end a casa tua?" Samantha risponde semplicemente "Non lo so". Ed in effetti, uno si chiede perchè un po' per tutto il film, ma avere delle risposte, non è obbligatorio, o forse non esistono ancora  le parole giuste. Le parole, con il loro significato, descrivono ma anche delimitano, bisogna ancora inventare quelle senza i bordi.
A questo punto, quando si parla di cinema, occorrerebbe dire qualcosa sugli attori: non ne conosco neanche uno: il ragazzino è esordiente ed  efficace, Thomas Doret, la parrucchiera deteterminata è  Cecile de France, che altri e non io hanno già visto in Hereafter,  la regia è dei fratelli Dardenne, dei quali pure non ho visto altri film, e posso solo considerare quanti fratelli fanno i registi. In genere dei film noto o  mi rimane impressa la  fotografia, e qui no. E neanche la colonna sonora.  Certo, la storia ti prende, basta essere genitori, direi, e non vivere con le fette di salame sugli occhi.

Norma Jean

abbdd61904c54a192bf724f72f1df59dOggi al  TG parlavano di questa statua, eretta a Chicago… ecco, penso che Marylin una cosa così di cattivo gusto non se la merita.

Forse, se la vedesse, si metterebbe a ridere.

Effettivamente, se dovessi pensare a come statuare Marylin, non mi viene in mente un’alternativa, soprassiederei, probabilmente.

Forse, non sono abituata alle statue a colori, mi sembra un gigantesco soiuvenir, potrebbe stare dentro a quelle bocce di vetro, se le agiti si muove la neve.

Marylin preferisco pensarla in movimento, leggera e spiritosa, non come le nostre soubrettone.

The Tree of Life

Giovedì sera ho accolto con sollievo la conclusione del film, mi sentivo oppressa.
Questo stato d’animo d'altronde mi è proprio, dal momento che mi sembra di vivere sotto assillo  dell’Idra, se taglio una testa ricresce, per quanto mi sforzi  per me non c’è scampo, non posso stare a perdere tempo lì per una cosa brutta, con tutte le altre a cui ho da pensare.
La storia… la storia non è nulla, nulla che non sia già stato narrato o filmato. Uno dei figli muore, vicini e parenti si raccolgono intorno ai genitori addolorati, un figlio ripensa al fratello morto a soli 19 anni (come e perchè, non viene rivelato,  evidentemente superfluo, probabilmente in Vietnam,  forse a saperlo mi sarei sentita di più a mio agio) e rivive la sua crescita, dibattuto tra la madre dolcissima ed il padre autoritario e disilluso, preso in un dialogo sussurrato (con i propri pensieri? con la madre? con il padre? con Dio?) il rapporto con i fratelli minori, le brutture della vita, i primi turbamenti … Come contorno, immagini mirabolanti e ridondanti della natura, dell’origine del mondo, dei mari, dei vulcani, delle abbaglianti distese di sale, e questo figlio protagonista  oggi ripensa a quei momenti,  muovendosi tra castelli di vetro dove della natura non c’è più traccia, attraversa un ponte e, seguendo se stesso ragazzo, raggiunge una porta  che varca, ritrovandosi  a camminare tra le persone della sua vita, sorridenti. La Grazia, finalmente, dopo anni di conflitto con la natura?

Quando il film è finito, ho esclamato “finalmente ho visto un film veramente brutto”… non mi ero preparata assolutamente alla visione, avevo visto il trailer e pensavo fosse alla fine una sorta di Forrest Gump “credo di non averci capito niente”. Ora, leggendo qua e là, scopro che potrebbe vincere il festival di Cannes, e che è pieno di significati;  di allegorie, direi.
Ho scoperto anche che per tutto il film avevo seguito le vicissitudini di Jack pensando che fosse il fratello che poi moriva, no, era invece vivo ed impersonato da Sean Penn.  Ma non sono stata l’unica a fraintendere, e questo mi fa dubitare della bontà del film: per me un’opera che  riesce incomprensibile, non è un capolavoro, è una  faccenda personale dell’artista.  O forse, non era un'opera per me, ma destinata ad altri.
Dicevo, le allegorie me le son perse, evidentemente.  Se devo essere sincera, non avevo neanche l’umore per cercarle. Quelle immagini – l’unica che un po’ mi ha catturato è stata la nuvola che usciva rotolosa dal vulcano – mi sembravano il collage delle mail che girano nel ceto impiegatizio,  con foto bellissime che qualche volta riportano in sovraimpressione frasi sull’amicizia e cose così.  Le frasi qui venivano bisbigliate… mi provocavano un senso di fastidio, di rifiuto.
La vicenda familiare  mi ha avvolto in una sensazione di invisibile violenza,  non vedevo l’ora che finisse, non avevo bisogno di quel film, che pure avevo proposto io: certo, nel giudicare, nel capire un film, le nostre faccende personali hanno un peso, a volte narrazione, visione e musicalità non si amalgamano tra loro e con noi stessi..magari non era  il momento giusto  per vederlo. Ma questo, non ho nessuna voglia di rivederlo, ho proprio un carattere diverso, troppo pragmatico e incapace di fede, per esserne attratta.

Parlando degli attori, invece, questi son stati di poche parole, e molti sguardi. Il più loquace il padre/signore Brad Pitt, che doveva manifestare il suo autoritarismo. Le frasi di tutti, concise, calavano spesso con la leggerezza di un colpo di fioretto. La bellissima madre Jessica Chastain è stata spesso ripresa di narice, cavità evidentemente considerata  espressiva in questi primi piani  fatti di sguardi. I ragazzini parlano pochissimo, osservano molto, e passano anche all’azione. Forse questa concisione di dialogo ha un suo motivo, vuole riportare all’universalità degli affetti e delle sotterranee guerre familiari. Sean Penn parla poco, pensa, cammina e guarda. Boh.
A parte quelle con i colori della Chastain, ho trovato gelide perfino le immagini di natura, di una bellezza  comunque tecnicamente inconfutabile.

Habemus Papam

Spesso,  quando  di un film si parla molto, troppo, mi ritraggo: non voglio stare al gioco, se ne parla perchè vale, o si monta il caso perchè si vuole che se ne parli? Ma Moretti fa pochi film, quindi ci si può fidare. Devo dire anche che la mia simpatia per lui è soggetta a sbalzi, però in questo momento socio-politico, rifugiarsi per un paio d’ore in un suo film può fare bene.

Da dove cominciare? In pochi giorni dacchè è uscito, credo che la vicenda  narrata sia ormai nota ai più: viene eletto un Pontefice che non si sente all’altezza del compito assegnatogli da Dio, egli stesso, dice urbis et orbis,  è tra quelli che sentono il bisogno di essere guidati. La sensazione che ho avuto sin dall’inizio è che il fulcro del film non fosse il dramma umano e religioso del neonominato, bensì il corpo della Chiesa ai giorni nostri, e questa sensazione me l’ha confermata anche la scelta della canzone che ad un certo punto pervade l’aria nel film, nel Vaticano e per le vie di Roma, “Todo Cambia”, di Mercedes Sosa. Si parla dello psicanalista, ma nel film non esiste una cura psicoanalitica per il nuovo Papa, la cura infine è l’immersione nella  vita al di là del muro, e rendersi conto di desiderare di farne parte, scomparirvi.
Protagonista del film a me è sembrata invece la ragion di stato, l’immobilismo della Chiesa, legata alle sue tradizioni ed ai suoi regolamenti, di cui il Portavoce (fantastico Jerzy Stuhr) è un esemplare tutore. Vero che il Papa non era stato ancora ufficialmente proclamato al di fuori delle mura Vaticane, e che per i Cardinali valevano ancora le regole del Conclave, restavano sottochiave, ma  questo trattamento  viene esteso al valente psicoanalista chiamato a curare il Papa:  non potrà tornare a casa e curare i suoi pazienti, anzi deve consegnare il cellulare, gli assegnano la “cella” e gli portano un tot di camicie pulite. Esilarante la scena della psicoanalisi, che si svolge con Moretti e Piccoli seduti di fronte, e tutti i Cardinali lungo le pareti intorno: Moretti non potrà parlare col Papa, giammai, di sesso, potrà riportarlo con la mente ai ricordi di infanzia, ma con moderazione, e i sogni? i sogni sì, ma non tutti. Moretti col suo fare  a volta stralunato sottolinea la rigidità di certe regole. Quando il portavoce fa credere che l’illustre paziente sia nelle sue stanze, mentre in realtà sta vagando per Roma, Moretti viene lasciato disoccupato tra i Cardinali anzianotti, dediti allo scopone scientifico ed ai puzzle, e li istruisce sulla corretta gestione di pillole e goccine  sedative (ognuno di loro ne era fornito, avevano  il patema di essere eletto, al contrario di quel che pare avvenga nella realtà), li aggiorna sulla loro graduatoria nelle scommesse per il toto-Papa,  ed alla fine li convince a partecipare ad un torneo di pallavolo, purchè si escludesse l’eventualità di  una squadra composta dalle onnipresenti aitanti guardie svizzere. Un’atmosfera medioevale, nel Vaticano. Todo cambia. Ci vuole  qualcuno in grado di operare il cambiamento nella Chiesa, o meglio, l’adeguamento: il film, nel frattempo, ci regala risate esilaranti, sorrisi di comprensione e un po’ di riflessioni.

C'è chi dice no (il film)

Altro titolo plausibile, ” Non c’è più scampo”.

Una signora ha commentato, all’uscita dal cinema Sociale di Pallanza “Meno male che era umoristico se no chissà che spatafiata era.” Effettivamente il tema non era da poco: I raccomandati (i segnalati sono uguali) non rubano solo il lavoro, ma il futuro, la famiglia, i figli”.

Tre compagni di scuola, laureati anche con sacrificio delle famiglie, da una vita precari, si vedono soffiare l’assunzione, presso un giornale, un’università e un ospedale da figli generi e nuore di importanti personalità “intrallazzate”.  I tre, che si erano persi di vista, si ritrovano ad una cena di classe, e decidono di fare in modo di riavere il posto che spettava loro di diritto fondando il movimento “Pirati del merito” e dedicandosi allo stalking, con situazioni tragicomiche. Riescono perfino a  filmare i baroni universitari che,  informati di una prossima  (fasulla) ispezione,  si affannano a rivedere tutti gli ultimi concorsi, sistemando i curriculum  degli “indegni” vincitori  (tra i quali uno bravo, e definito da loro stessi un caso). La loro vicenda si intreccia con quella di due carabinieri incaricati di indagare su queste “intimidazioni”, che riescono ad arrivare ai colpevoli quando ormai il caso è superato, e li minacciano di smettere, stonatamente, visto che erano  anch’essi vittime sulla stessa barca.

L’opera,  ho intravisto nei titoli di coda,  è di interesse nazionale e patrocinata dal Ministero della Cultura. Che ci sia un regista, non me ne sono accorta, il film scorre  anonimamente, senza alcun tocco di personalità. La Cortellesi in ruolo semiserio non è credibile, e  nulla  viene trasmesso alla sottoscritta spettatrice del dirompente amore, con l’Argentero; più  comunicativo il loro compagno topo Ruffini, che ha l’ufficio di ricercatore nel w.c. universitario  (con la scritta “fuori servizio” sulle porte dei cessi),  empatici  i carabinieri, affannati a far indagini  con limitati mezzi informatici, col meccanico che non ripara la  loro auto perchè hanno raggiunto il budget, cosicchè devono fare gli inseguimenti andando piano, e con muratori, muniti di sacchi di cemento e mattoni,  che transitano per il loro  ufficio.

Dunque,  due dei tre protagonisti riescono ad avere il loro posto, e decidono, per aiutare il  terzo, il ricercatore, di andare fino in fondo rendendo pubblico il  predetto filmato, ma non otterranno nulla: il posto sarà defintivamente perso per tutti e tre, che  verranno  condannati agli arresti domiciliari per sei mesi,  mentre i vecchi  baroni saranno  semplicemente sostituiti,  sotto la maschera “largo ai giovani”, dalla loro stessa genìa.  Forse  il seme è gettato: nelle ultime inquadrature del  film,  ombre nere li seguiranno, come dicevano i volantini con il proclama dei Pirati del Merito.

L’argomento è senz’altro pesante, in un’Italia a corruzione endemica (definizione  emersa  da una delle rivelazioni “Wikileaks”): non lascia speranze. D’altra parte le raccomandazioni sono sempre esistite, e non si possono giudicare aprioristicamente immorali, se io dovessi assumere qualcuno preferirei qualcuno che conosco, o di cui persone che apprezzo mi parlano bene.  Certo non è legittimo dare incarichi a persone incompetenti a scapito della comunità, che ne  sostiene gli oneri e subisce gli effetti nefasti dell’incompetenza e immoralità. E non è legittimo manomettere i risultati dei concorsi, calpestando anni di sacrifici e le speranze di persone valide, probailmente le migliori in quel campo.

Il Discorso del Re. (Un re psicosomatico)

Già cercare un’immagine che per me rappresenti il film non è facile. Con titolo così, la gran parte delle immagini presenti nel web non fanno che riportare bocche espressioni e volti, e soprattutto il volto del Re davanti a microfoni radiofonici quasi primordiali; io cercavo qualcosa più.. ambientale.
Il film non è che sia stupefacente, e non mi piace neanche Colin Firth, ha un viso privo di connotati, mentre guadagna un sacco di punti Helena Bonham Carter, che vista in altri film mi era  sempre parsa antipatichina. 
L’impalcatura del film non è granchè originale, ma d’altra parte per raccontare una vicenda non è sempre obbligatorio esserlo, anzi,  facendolo, spesso e volentieri capita di  andare incontro a sforzature.
Il clichè: un personaggio importante ha un problema fisico, i dottoroni non funzionano,  arriva il guaritore diverso dagli schemi  cui  è abituato, dapprima entra in conflitto con lui,  poi si lascia domare e tutto finisce per il meglio. 
Alla fine, la cura consiste in iniezioni di fiducia in sè.Che poi nei modi questo Lionel Logue – chiamatelo Lionel – mi ricordava alla lontana il sig. Hulot: so che non c’entra nulla, ma nulla posso contro le mie associazioni mentali (e nulla intendo fare, mi piace che mi vengano).
Ma allora cos’ha di bello questo film?
La storia e la Storia. Per esempio, scopri che da bambina la Regina Elisabetta non portava cappellini,  curava una scuderia di cavallini a dondolo e con le rotelle, ed indossava già quei cagnetti corgi che non ha mai dismesso.
Scopri che Giorgio VI e sua moglie Duchessa di York si amavano molto, mentre invece avevi sempre sentito parlare  del grande amore di Edoardo VIII per  Wallis Simpson, che lo ha portato ad abdicare: ecco, nel  film non hanno un  grande spazio, ma sufficiente per rendersi mondanamente  odiosi.
Mentre il logopedista Logue (un nome, un programma) intuisce che la balbuzie dell’imprevisto Re  tragga origini da episodi della sua infanzia, rifletti  come la famiglia, ancorchè regale, non sia solo un rifugio sicuro  ma anche un luogo dove vengono perpetrate  volontarie ed involontarie piccole crudeltà, di quelle che ti lasciano il segno senza che tu te ne accorga. Per non parlare di quello che gli altri si aspettano da te, malgrado te.  
Lo so che si parla dell’inizio della guerra e cose così, ma io sono quella che trova i quadrifogli nel prato, il prato è lì verde che si vede già così.

Ovvio, Quella sera dorata

Non avevo pensato che per arrivare al cinema Apollo in una domenica pomeriggio bisognasse sgomitare nella folla che fa le vasche in Corso Vittorio Emanuele.  Mi sono ricordata che questo ingombro di umanità è  una delle ragioni per cui ho smesso di fare i regali di Natale.
Una tipa in vasca di fianco a me diceva ad un'altra " No, io non potrei stare a Milano, meglio la mia Cassina, dove non c'è in giro nessuno" Per forza, ho pensato, a quanto pare quelli di Cassina vengono tutti qua, alla domenica.
In ogni caso, al cinema ci sono arrivata.
Cosa dire di questo film? "Ovvio"
La storia è "ovvia": una fidanzata soverchiante, il protagonista deve dimostrare a lei ed a se stesso le proprie capacità, parte solo alla volta dell'Uruguay per carpire il consenso della famiglia di uno scrittore morto suicida  per scriverne  la biografia, in Uruguay scopre un mondo diverso, schemi diversi di vita,  e insomma alla fine tutti i personaggi arrivano a capire e conquistare quello che mancava loro, tutti vivranno felici e contenti. Entusiasmo che non fa male condividere, in questi tempi bigi. In ogni caso c'è un romanzo incompiuto, gioielli celati…
Il titolo italiano non lo ho mica capito tanto, cosa c'entra con il film,  meglio quello originale, The City of Your Final Destination.
Ecco, detta così, la trama non invoglia di sicuro, ma al solito non mi piace raccontarla nei dettagli per non rovinare il gusto del film,o del libro che sia (che nessuno però leggerà mai dopo aver visionato questa rece).
"Ovvio", è anche la recitazione efficace, in un film di Ivory, mai visto un film di Ivory con attori sbagliati,  film in genere maliconici e nostalgici delle cose com'erano un tempo.  Questo,  che offre parecchi scorci naturalistici, invece non è ambientato in Inghilterra, ma  prevalentemente nella fattoria di Ocho Rios, velata  dal tempo ma pulsante di vita, in questa orgia di spazi aperti.
Un po' "ovvi" anche i personaggi, insomma ti aspetti come sono e  cosa faranno,  e nel corso del film ne hai via via la conferma.
Nonostante tutte queste ovvietà, resta nell'insieme un film gradevole e  tranquillizzante, nel quale ogni inquadratura è un'opera d'arte, e questo è già appagante. 
Pensieri: il musetto tutto francese di Charlotte Gainsbourg… non è bella, secondo i canoni della bellezza, però è bella, e mi ritrovo a scrutarla per scoprirne il segreto.
L'amore e il sesso, pur essendo un film che definirei di sentimenti,  non sono invadenti.
L'impegnativo cane iniziale, che veniva nutrito con dieta apposita, è sparito nel corso del film.
Nel trailer, si succedono le inquadrature degli attori, Anthony Hopkins, premio Oscar, Laura Linney candidata all'Oscar, Charlotte Gainsbourg, Palma d'Oro, e quindi Omar Metwally (il protagonista, o meglio l'agente provocatore) che invece trasporta valigioni sotto la pioggia. Forse un giorno anche lui sarà candidato a qualcosa, forse.

Il solista (anzi, due)

Non sapevo niente del film, tranne che il protagonista fosse un suonatore di violino randagio,  tant’è vero che quando ho visto la prima scena, il ciclista che cade e si fa male, credevo che il solista fosse lui, e mi sembrava che come mendicante randagio fosse troppo a puntino.
Invece era il co-protagonista, l’altro solista (della penna), ed era la prima delle scene senza capo nè coda, diciamo di contorno alla vicenda, insieme alle altre due, andare a farsi fare le analisi per conto del giornale e scrivere un articolo sugli effetti dell’inquinamento, e la vicenda dei procioni che devastano il giardino e da tenere lontani con l’urina di coyote, che, si scoprirà, vendono liofilizzata. Forse queste due ultime non sono propriamente inutili, forse danno un quadro dei limiti, sempre valicabili, raggiunti dall’alienazione nel nostro evo. Al pari delle riprese di Los Angeles dall’alto. Gli anelli delle strade che sovrastano l’abitato e nei quali scivolano rettangolini, gli stessi rettangolini che vedi allineati fermi  tutti uguali in immensi parcheggi sotto i cavalcavia, e la sconfinata estensione di rettangolini di casette tutte con la loro macchiolina turchese di piscina.
Terrificante confronto con i quartieri dove gli uomini randagi si accalcano e sopravvivono in mezzo alle loro  violenze, malattie, dipendenze,  una violenza che non è solo la loro ma a questo punto sembra lo sia il vivere stesso, aiutati da energici volontari, da loro rispettati.
E sotto questi anelli di strade c’è un senzatetto vestito in modi vivaci, il sig. Nathaniel Ayers, cultore di Beethoven che non può tollerare una cicca di sigaretta buttata per strada. Il gionalista trova la sua storia, il senzatetto malato di schizofrenia trova il suo punto di riferimento. Come sempre, non mi piace narrare la vicenda in modo particolareggiato, se no uno che legge qui poi non si gusta il film. Posso dire del fine abbastanza lieto, senza palloncini che volano in quanto il regista è inglese, abbastanza lieto dicevo perchè il senzatetto non guarisce, semplicemente i due protagonisti trovano un equilibrio nel loro rapporto, diventando semplicemente amici senza essere più vicendevoli strumenti quasi ossessivi.
Ed è da non perdere la colonna sonora, assaggiatela nel trailer, perfetta.

fulgida stella

 
 
Bright Star, dunque.
Ero attratta dal film  sia per il  nome della regista, Jane Campion, che dall’ambiente “Austeniano”, non per nulla ho divorato tutti i suoi romanzi, lamentandomi che ne avesse scritti così pochi.
La trama è assolutamente banale, la storia d’amore di due giovani, casualmente uno poeta,  ed è la cosa fastidiosa ed ingombrante del film… nel senso che i due attori non mi hanno trasmesso nulla della grandezza di questo amore, li osservavo e pensavo, ma perché due così dovrebbero innamorarsi?  Due corpi estranei, assolutamente non in sintonia…
Ed è così che ho abbandonato la storia, seguendo invece  i personaggi non protagonisti  e guardando  i quadri che lo schermo generosamente offriva, assaporando i colori, gli accostamenti ed i contrasti, le trasparenze. Rifulgevano  le scarpe di Fanny e di Keats, i lampi  di gelosia di Mr. Brown, la rassegnazione affettuosa di Mamàn, e gli occhietti scrutatori della sveglissima Toots.
Fantastico Mr. Brown quando descrive l’attività del poeta, affinché non venissero disturbati, lui e Keats. “se anche ci vedete passeggiare, o sdraiati sull’erba, stiamo meditando”, le parole non erano esattamente così, ma il concetto emerge ugualmente.
Avrei voluto ritrovare in video, su “Gogol”, le riprese iniziali del film, l’ago che infila gomene con  l’occhio della telecamera che via via si allontana riportandoci ad un delicato ricamo, il villaggio inglese con le file di panni stesi, il cortile con le oche, eppure niente di tutto ciò, quello che del film deve venire diffuso sono quelle poche immagini che ritraggono i protagonisti, mentre in quelle che cercavo io erano protagonisti i panni, i colori ocra, i fiori, il bianco. 

Mine vaganti.

Il cinema di Verbania è un bisala, cioè un multisala piccolo.
Al contrario del solito, il cassiere è un uomo che ti raccomanda di tenere con te l'ombrello e ti racconta che lui non ha il problema perchè è in moto e al ritorno si piglierà tutta l'acqua, mentre è una  signora, anziana, che strappa i biglietti mezzo metro più in là, e mi chiedo se in un cinema che è tutto raccolto lì, il rito abbia un senso. Per quanto riguarda l'ombrello, capisco  sia un rischio, il cinema è di fianco al penitenziario, e per quanto riguarda la signora, capelli grigi, golfino qualunque con lo zip e pantaloni, mi chiedo quanto poco  ancora mi manchi per esser come lei, già siamo vestite uguali.
Le poltroncine verdi hanno una conformazione anatomica tale che, se mi ci abbandono, il mio sguardo è portato al soffitto e non allo schermo. Mi risistemo un po' meglio.
Le luci finalmente si spengono, e si sentono i rumori del film, un crepitio, dei passi concitati. Si attende l'immagine, ma si riaccendono le luci.  Non era una genialata del regista, allora.
All'inizio ho un po' di difficoltà a collocare  ambiente e personaggi, poi la cosa  si fa scorrevole, anzi, non tardano ad essere familiari.
Due fratelli gay che hanno tenuto nascosto la loro natura sentono la necessità di lasciarla emergere, e seguire la loro strada, in un ambiente  non  ancora avvezzo ad accettare queste diversità, un ambiente ricco, anche se non ostentamente opulento. Una famiglia dove c'è tutto un campionario di personaggi, mancava solo un parente ecclesiastico. Le ciglione vellutate di Scamarcio, un cognome dispregiativo che fa da contraltare ad  una oggettiva bellezza,  l'espressione meravigliosa di Ilaria Occhini – magari invecchiassi con un viso così…  La stravaganza di zia Luciana, che ci fa, non ci è.  Non mi piace tanto scrivere le trame, anche perchè un film lo si deve vedere, e non si deve "riconoscere" .
Ozpetek apre dei discorsi offrendone dei quadri, nulla che sia nuovo, o che dia delle soluzioni. Diciamo che il filo conduttore del film è la scelta, la libertà, la capacità e la forza di scegliere,  e anche di accettare le scelte altrui: non è un discorso nuovo, appunto. Certo è tutto più facile in un ambiente dove non ci sono problemi economici,   del fratello che si allontana a tasche vuote, nulla si sa come se la cavi, a cosa lo abbia portato la sua scelta,  se non nel campo sentimentale. Ma è un film di sentimenti, la concretezza non è richiesta, sono io che sono abituata a portare sempre tutto nel pratico.
Ripensarci su, a queste questioni,  comunque non fa mai male, ed il film è piacevole in una giusta miscela di ironia  ed emozioni,  anche se ci  sono alcune scene surreali: il giovane Tommaso vuole fare lo scrittore, ha mandato il suo manoscritto a un (solo) editore, e riceve una lettera di rifiuto da questo editore (si vede una busta con tanto di bollo di posta prioritaria).

Il riccio

Non ho letto il libro L’eleganza del riccio, ma tanto l’autrice non lo ha riconosciuto nel film.
Per quanto best seller, non ho ancora un parere di chi abbia letto il  libro e visto il film.
Cosa dire… che amo per principio i film francesi. Ci sono narrazioni intere nell’inquadratura  di un volto, di uno sguardo, di un sorriso che spunta e subito si nasconde,  nei dialoghi scarni.
Tra i personaggi esasperatamente caratterizzati, alcuni vere caricature,  filtrano inaspettate sintonie.
La portiera che si reca dal parrucchiere la prima volta dopo anni, e ne riesce con un altro viso, e riprende le sue attività nell’androne della lussuosa casa parigina… una semplice occhiata sospettosa allo specchio che la riflette ben pettinata con la scopa in mano, lascia capire tutto dei pensieri e delle timidezze di questa donna sciatta che torna ad aprirsi al mondo esterno.
Per non parlare dei dialoghi, l’impietosa  Paloma (la sorella si chiama Colombe, e la madre parla con le piante di casa un tot di ore al giorno) a tavola comunica al padre ministro:
"da grande farò la portiera"
"faremo di tutto perchè tu possa realizzare i tuoi sogni" risponde impertubabile il padre.
"da grande farò la portiera" dice alla portiera
"non dire sciocchezze, da grande farai la principessa" risponde lei.
Un film da vedere….è che neanche dopo la fine del film smetti di chiederti se questa portiera non fosse stata una principessa.

louise – michel

                
Il titolo scritto col trattino tra i due nomi ha il suo perchè.
Se i francesi riescono bene nelle storie di sentimenti non detti, altrettanto bene riescono nel grottesco, che miglior aggettivo non mi viene  per catalogare questo film, del quale non voglio narrare nè la trama nè i colpi di scena perchè ne rovinerei la visione, già il trailer mi pare faccia vedere troppo.
Grottesco, perchè pervaso da umorismo noir, perchè i protagonisti sono due persone raccapriccianti non solo nel fisico, macchiette di se stesse, e macchiette anche tutti i personaggi che transitano nel film. Un paio di scivolate nel cattivo gusto, che comunque si perdonano, più la seconda della prima,  nel chiamare in scena una cugina malata terminale e poi le torri gemelle di N.Y.
Il film è curato nei particolari, e al di là di quello che può esser la risata, viene presentato un quadro non insolito del mondo del lavoro… per esempio quando nel rintracciare il "padrone" i protagonisti si ritrovano in una stanza piena di caselle per la posta e Michel esclama "Ho capito, siamo in un paradiso fiscale!"… realtà e amarezza denunciate con umorismo spietato.
E’ così… è un film dove la pietà non esiste.

cinema e ancora cinema

Pur piacendomi, non riuscivo mai ad andarci, temevo che ormai vedere un film fosse diventata per me una faccenda offlimit, dal momento che anche con un dvd casalingo mi addormentavo sul divano.
Al cinema no, non succede, resto sveglia (abbastanza).
Dal primo di maggio sono andata al cinema tre volte,  e spero che il trend continui, dal momento che anche i film meritano, poi così diversi l’uno dall’altro.
Questa sera sono andata con mia nipote a vedere Ti amerò sempre, al cinema Rosetum, un cinema parrocchiale che però ricordo sempre per la qualità dei film proposti, aperto purtroppo solo nel week end.
E’ una storia dì’amore, ma non tra uomo e donna come semplicisticamente si è portati a pensare..
Come è caratteristica dei film francesi, non succede quasi nulla…all’apparenza, perchè nella vita dei personaggi, con  nonchalance, di fatti, di cose ne succedono parecchie.
La recitazione della protagonista, donna estremamente chic, è molto intensa, e così deve essere, perchè è suo il compito di costruire la storia, che piano piano infatti  assume i suoi contorni. Anche per questo motivo della  trama non voglio dire nulla, perchè se qualcuno non l’avesse ancora visto,  perderebbe quel senso di attesa che pervade il film.